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In Breve

| 08 giugno 2018, 11:39

La recensione: Jurassic World: il regno distrutto

Dinosauri battono umani per ko tecnico ed empatico: il sequel del campione d'incassi tra confusione poetica, sciatteria drammaturgica e bellissimi rettili

La recensione: Jurassic World: il regno distrutto

Era già successo, in fondo, con le scimmie del Pianeta, se volete con i lupi di Twilight, con gli orchi de Lo Hobbit e via dicendo. C’è una tecnologia, nel cinema oggi, che fa male agli umani, leggi interpreti in carne e ossa, ovvero ne stigmatizza tutte le debolezze, inadempienze, manchevolezze, persino sul piano emotivo, emozionale, empatico: nel sequel Jurassic World: il regno distrutto i dinosauri mangiano in testa agli umani, e le dimensioni non spiegano tutto. Anzi.

Quando un, crediamo, brontosauro viene abbandonato tra fuoco, fiamme e lapilli sull’abbandonanda Isla Nubar ci si spezza il cuore, che in confronto Arlo era davvero un cartoon per poppanti: i dinosauri sono esseri viventi, diremmo, senzienti come e più di noi sapiens sapiens, e non c’è provetta, reazione e clonazione che tenga. Di più, sorpassano a destra, sulla corsia dell’emergenza patetica, persino la bambina Maisie, la nipote di Lockwood (James Cromwell, bollito) che sul tema ne sa qualcosa.

Comunque, il precedente Jurassic World (2015), diretto da quel Colin Trevorrow rimasto quale co-sceneggiatore, incassò la bellezza di un miliardo e 671 milioni di dollari, quinto incasso di sempre (non aggiustato con l’inflazione), e la pressione su questo sequel firmato dal catalano Juan Antonio Bayona è considerevole: Owen (Chris Pratt) e Claire (Bryce Dallas Howard) continuano a flirtare castamente, la velociraptor Blue è più che mai a repentaglio, l’isola esplode, conservazione/deestinzione/manipolazione/preservazione/monetizzazione spianano ascisse morali e ordinate evolutive, e la summa del Dr. Ian Malcolm (Jeff Goldblum) più che un precipitato è un precipizio: non si capisce che voglia dire, che voglia monitorare e monitare. Boh.

In ogni caso, i dinosauri son davvero belli: triceratopi da abbracciare, T-Rex da ammirare e una sorta di ariete rettiliforme che tutto può e tutti incorna. Gli umani, viceversa, sono imbelli: i cattivi non ci sono – tale non è Eli Mills (Rafe Spall), il braccio destro di Lockwood – e lo scioglimento è puerile per narrazione, distratto e sciatto per drammaturgia, inappetente per pathos. Insomma, un documentario su questi gigantoni squamati sarebbe stato di gran lunga preferibile.

Invece no, tocca farsi bastare, ma come?, le battutine antifrastiche di Pratt, con un occhio all’orologio, due o tre pensieri a quanto sin da piccoli e nei secoli dei secoli ci piacciano i dinosauri e uno, residuale e sconfitto, alla figlia di Ron Howard: di rifatto ha solo il naso o pure il seno? Per Jurassic World: il regno distrutto vale quanto mi ha detto mia figlia, sei anni, all’uscita: “I dinosauri sono belli, il film no”. Dalle torto.

Recensione tratta dal cinematografo.it

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