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In Breve

| 06 dicembre 2019, 11:21

La recensione: L’immortale

Marco D’Amore "resuscita" il suo Ciro Di Marzio e tenta la via dell'esperimento crossmediale. Per tornare alle origini del personaggio e introdurre la prossima stagione di Gomorra: coraggioso e imperfetto

L'immortale

L'immortale

Chi non muore si rivede. Avevamo lasciato Ciro Di Marzio sprofondare nelle acque del Golfo di Napoli dopo il colpo di pistola sparato da Gennaro Savastano. Era il finale della terza stagione di Gomorra. Ora, dopo la quarta stagione della serie, scopriamo (a dire il vero con poca sorpresa) che l’immortale lo è di nome e di fatto.

Sopravvissuto miracolosamente, Ciro viene ripescato agonizzante e spedito da Don Aniello (Nello Mascia) a Riga, in Lettonia, dove è stato aperto un nuovo e redditizio canale di spaccio internazionale.

Marco D’Amore torna ad impersonare il malavitoso che l’ha reso celebre, passa dietro la macchina da presa e accetta il peso della sfida di un progetto coraggioso, inedito nel panorama seriale/cinematografico attuale, quello cioè di incastonare una sorta di origin story nel percorso ancora vivo di un format inconcluso: L’immortale è a tutti gli effetti un ponte di raccordo tra la quarta e la quinta stagione (in fase di scrittura) di Gomorra e nasce per volontà primigenia dello stesso D’Amore, deciso ad indagare e approfondire il percorso di un personaggio, quello di Ciro, al tempo stesso ambiguo e affascinante.

Macchina produttiva nuovamente di livello (con Cattleya e Vision in collaborazione con Sky, Timvision e Beta Film), scrittura (dello stesso D’Amore, insieme a Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Francesco Ghiaccio e Giulia Forgione) che deve salvaguardare il coté del serial di riferimento ma integrarvi uno sguardo retroattivo su un’infanzia tutta da inventare, L’immortale gioca come prevedibile sul doppio binario “romanzo” di formazione / ineludibile condanna di una vita ormai svuotata di qualunque senso, contrappone la smaliziata innocenza del bambino Ciro (orfano come tanti altri dopo il terremoto devastante del 1980 e costretto giocoforza ad imparare l’arte di sopravvivere) ai silenzi disillusi dell’uomo Ciro, intorno al quale non è rimasto più nulla, nessuno da amare.

I furtarelli e il contrabbando di sigarette allora, il traffico di cocaina oggi: la Napoli anni ’80 dei vicoli e di una criminalità che ancora poteva apparire guascona e piratesca, il clima rarefatto e asettico dell’estremo nord-est europeo. Ad accogliere Ciro in questa nuova “esistenza” un manipolo di conterranei che si arrabattano come magliari e contraffattori. Tra questi, invecchiato e stanco, c’è anche l’uomo che a suo tempo l’aveva “adottato” bambino e instradato nel mondo malavitoso.

È insomma un continuo rimbalzare tra le vicende di un presente (parallelo e autonomo rispetto agli avvenimenti della quarta stagione di Gomorra) atto ad introdurre il plot della nuova serie e un passato che esplora le origini di un carattere formatosi nella povertà estrema, “ucciso” sin da piccolissimo dall’esistenza stessa che l’ha visto poi trasformarsi in boss.

Vive di situazioni e atmosfere mutevoli, L’immortale, mantenendo comunque una discreta tensione narrativa ma soffrendo in più momenti qualche eccesso di troppo, nelle musiche, nelle sottolineature, nella ricerca un po’ troppo meccanica di un’epica non sempre restituita alla meglio.

Alla lunga (116’, qualche sforbiciata non avrebbe guastato) è un film che riesce però a raggiungere l’obiettivo prefissato, quello cioè di poter dialogare tanto con i “Gomorra addicted” quanto con i neofiti, giungendo al plot twist finale che chiude un cerchio. E apre nuovi scenari seriali.

Recensione tratta dal cinematografo.it

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