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In Breve

| 19 febbraio 2020, 11:44

La recensione: Manta Ray

Fulminante apologo sul senso profondo del sopravvivere, dedicato alla tragedia dei rifugiati Rohingya. Dirige Phuttiphong Aroonpheng, in Orizzonti

La recensione: Manta Ray

Phuttiphong Aroonpheng viene dalla Thailandia, ha studiato belle arti a Bangkok e cinema a New York. Un percorso tra arti visive e immagini in movimento che trova uno sbocco ideale in Manta Ray, fulminante apologo sul senso profondo del sopravvivere raccontato attraverso inquadrature fisse e lunghe silenziose sequenze che sembrano quadri. Il cinema di riferimento è quello sospeso di  Apichatpong Weerasethskul, che però il giovane autore rilegge in maniera personale e senza esserne minimamente schiacciato.

In un villaggio vicino al mare in cui sono annegati migliaia di rifugiati Rohingya, un pescatore trova uno sconosciuto privo di memoria che in più non parla la sua lingua. L’uomo lo accoglie in casa e gli da un nome, Thonchai. Quando il pescatore un giorno,  all’improvviso e misteriosamente,  scompare Thonchai lentamente si impadronisce della sua identità, del lavoro e persino della moglie giunta in visita da un paese lontano.

Chi sono gli sconosciuti che bussano alle nostre porte? In occidente come in oriente, popolazioni senza voce abbandonano le proprie terre in cerca di lavoro, cibo, sicurezza e spesso lo fanno perché perseguitati. Milioni di esseri umani senza volto né nome cui spesso viene persino negato il diritto di parola. E se non si può raccontare la propria storia è come cancellare per sempre la memoria del proprio passaggio sulla terra.

 

Aroonpheng si fa carico di far voce ai rifugiati nel mondo, ma soprattutto ricorda il popolo Rohingya perseguitato in Birmania e costretto ad avventurarsi in mare in cerca di salvezza. Un viaggio della speranza segnato il più delle volte dalla morte per annegamento, destino comune e crudele ad ogni latitudine.

Se il messaggio è diretto, non lo è affatto il linguaggio scelto dal regista per raccontarlo, egli infatti preferisce affidandarlo  al filtro della poesia.

Manta Ray è un film che lavora per sottrazione, si affida a impercettibili snodi narrativi, conta su suoni e luci, suggerisce sottovoce piuttosto di urlare. Un’opera visivamente affascinante, luminosa, sfuggente, rarefatta eppure incisiva come un poema. Un esordio clamoroso. Una vera scoperta.

Recensione tratta dal cinematografo.it

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