Questa volta il nostro Teo Parini omaggia la figura di un tennista sui generis, uno che sarebbe piaciuto a Rino Tommasi e Gianni Clerici. Quindi uno che piace anche a noi.. Un bellissimo pezzo, tutto da leggere.
San Pietroburgo, 20 settembre 2018, torneo di casa, o quasi. Mikhail Youzhny, ormai trentaseienne, disputa quello che sarà il suo ultimo incontro da professionista, scelta pianificata già da qualche tempo. Dall’altra parte della rete c’è Roberto Bautista Agut, un tipo scomodo dal gioco tignoso a cui non daresti due lire e che invece, con due frecce spuntate nella faretra, ha finito per dotarsi di una carriera interessante. Abnegazione, un gran merito. A quanto si dice l’iberico non gode nemmeno della simpatia dei colleghi e dunque, per una sorta di proprietà transitiva applicata alle dinamiche sportive, nemmeno degli appassionati. Quando si dice giocare contro gli umori del pubblico. La differenza tecnica tra i due giocatori in campo è abissale, ma, purtroppo per il russo, lo è anche l’età e così un Bautista sparagnino, figlio di quell’attualità tennistica poco incline alla fantasia, accede non senza soffrire al turno successivo, negando al rivale la possibilità di un ulteriore ultimo match e la soddisfazione della vittoria numero cinquecento in carriera. Pazienza. Sedici anni dopo la vittoria nel torneo ATP di Stoccarda, la prima, il mondo del tennis ringrazia così con un lungo applauso uno dei talenti più luminescenti e irrazionali delle ultime generazioni. Resterà comunque nell’ambiente che lo ha visto diventare uomo, quale titolare di un’accademia. Largo ai giovani.
Un passo indietro. Miami, 31 marzo 2008, terzo turno del torneo all’epoca appartenente alla categoria Masters Series, ovvero il meglio del panorama mondiale fatta eccezione per i quattro tornei monumento. Sessione serale. Sul cemento dalla tipica colorazione verde-viola che caratterizza i playground della Florida, Mikhail Youzhny, professionista ormai da una decade, e Nicolas Almagro se le stanno dando di santa ragione, partita incerta. A un passo dal traguardo, avanti per cinque giochi a quattro nel terzo e decisivo parziale, lo spagnolo deve però affrontare una pericolosa palla break che potrebbe riaprire i discorsi. Quello che ne scaturisce è uno scambio estenuante, quando il rovescio del russo, un marchio di fabbrica per giunta, si stampa sul nastro: parità. Apriti cielo. Youzhny è letteralmente fuori di sé e dopo qualche imprecazione urlata al mondo con un body language che non lascia presagire nulla di buono decide che la punizione più consona al frangente nefasto sia quella corporale. Uno, due e tre colpi violenti di racchetta alla fronte aprono una ferita che in un amen prenderà a sanguinare copiosamente. Gioco sospeso, intervento del medico e multa in arrivo. Misha vincerà quella partita. L’aneddoto, al di là dell’ovvia singolarità, racconta molto di un personaggio sui generis, dalla psicologia complessa e indecifrabile che accomuna tanti campioni pregni di talento. Una sorta di geniale bipolarismo tutto tennistico – il compianto Roberto Lombardi, non a caso, era solito definire quello della racchetta e palla pelosa lo sport del diavolo – che certifica l’imprevedibile alternanza dell’eccellenza e del suo esatto contrario.
Anno 2002, ancora più indietro. Misha è in auto con Mikhail, il babbo, e Andrei, il fratello anch’esso tennista, rientrano da una sessione di allenamento. Non è un giorno come tanti perché l’incidente pronto ad attenderli in strada si porta via il padre, un valoroso ufficiale dell’Armata Rossa e mentore dell’adolescente Misha. Arresto cardiaco, dirà un medico. Nel momento di lancinante dolore, Youzhny – a cui l’esperienza finirà, se possibile, per fortificare un rapporto già viscerale con il gioco del tennis – conia un rituale che compendia commozione, esultanza e memoria paterna. La mano destra, tenuta rigida, sale alla tempia con la sinistra che nel contempo porta la racchetta sopra alla testa, a mimare un berretto che non c’è. Perché un saluto militare che si rispetti deve essere fatto con il capo coperto. Il gesto, dopo ogni vittoria, viene ripetuto con rigore quattro volte, una per ciascun lato del campo. Per la gioia di papà Mikhail, seduto da qualche parte a godersi le gioie di un erede speciale nella sua complessità, e anche della nostra. Impavidi bacchettoni quando si tratta, e succede sempre di meno, di godere del tennis d’antan.
La vita toglie, la vita dà. Che i russi siano un popolo visceralmente legato alla patria è segreto di Pulcinella e non è certo Youzhny, cresciuto nella rigorosa casa di un militare, a fare eccezione alla consolidata regola. Non è strano quindi che l’acme sportivo sia stato raggiunto dal moscovita proprio nella competizione a squadre nazionali per antonomasia, la Coppa Davis. Anno 2002, quello maledetto, palasport di Parigi-Bercy. Francia, ambiziosa padrona di casa, e Russia, appunto, si contendono l’insalatiera d’argento. Che in apparenza interessa giusto il minimo sindacale salvo poi regalare scampoli di furibonde battaglie che, stringi stringi, incarnano l’essenza dello sport tout court. Succede che dopo tre singolari e un doppio il punteggio sia ancora inchiodato sulla parità, con due vittorie per parte. Domenica, quasi sera ormai, la tensione si taglia a fette. Youzhny, nell’incontro decisivo di una giornata che sarà leggenda, prende il posto in campo di un autentico mito dello sport russo ormai al crepuscolo, Yevgeny Kafelnikov, roba da far tremare i polsi. Tra inferno e paradiso l’ostacolo è incarnato dalla speranza transalpina Paul-Henri Mathieu, anch’esso maggiorenne e poco più, che in una bolgia incandescente pronta a saltare in aria incamera agevolmente i primi due set. Saranno gli ultimi. Misha, sull’orlo del baratro e apparentemente senza alternative alla disfatta che incombe, ribalta l’inerzia della partita sfoggiando, come il mago che solletica il cappello, una varietà di colpi mai uguali tra loro che con l’incedere dei minuti sgretolano una a una le certezze del rivale. Fino all’inevitabile knock-out: tripudio. Per la Russia, in un contesto sociale che il politically correct definirebbe con garbo ‘di transizione’, si tratta del primo storico trionfo, con il delfino Youzhny a recitare la parte dell’eroe di stato. Per gli amanti della statistica è doveroso segnalare che nessuno prima di allora sia mai riuscito a recuperare uno svantaggio così marcato nel match decisivo di una finale. Misha assume dunque i gradi (sportivi) di Colonnello, nel nome del padre. Fu meno eclatante, come facilmente comprensibile, tuttavia Youzhny qualche anno più tardi contribuirà alla conquista di una seconda Coppa Davis.
Una carriera, in generale, non è mai l’equivalente di una somma algebrica delle coppe esposte in bacheca. Quella di Youzhny, nello specifico, è di tutto rispetto, detto a beneficio dei più schizzinosi. La diffidenza ingiustificata di molti aficionados privi di dimestichezza con l’analisi critica nasce dal fatto che, Davis a parte, la sua vita sportiva è oggettivamente mancante di quell’acuto, uno Slam per esempio, che una forma di talento purissima avrebbe forse potuto raggiungere. Forse. Perché nell’era geologica in cui viviamo, quella monopolizzata dal triumvirato dispotico Federer-Nadal-Djokovic, è impresa titanica ritagliare dalla torta un quarto d’ora di gloria. Anche per un tennista eccellente nella sua poliedricità, ma umano, come Youzhny. Gilles Muller – delizioso volleatore venuto al mondo con una trentina d’anni di ritardo e che, al pari di Misha (e di Francesca Schiavone) chiuderà i battenti in questo 2018 – ebbe modo di esplicare un giorno la differenza macroscopica che intercorre tra lo sport dei tre cannibali vincitutto e quello di tutti gli altri. Disse a riguardo che se è vero che lui a tennis ci gioca piuttosto bene, loro di rimando praticano tutta un’altra disciplina che esula dalle proprie competenze. Tanto per rendere l’idea. In ogni caso, nella stanza dei trofei di casa Youzhny trovano alloggio una decina di tornei del circuito maggiore, un best ranking fissato tra i migliori dieci giocatori al mondo (numero otto per la precisione), il traguardo dei quarti raggiunti in tutte le quattro prove del grande Slam con due semifinali a New York e, come visto poc’anzi, due Davis Cup e 499 incontri vinti in totale. Vincere sarà anche l’unica cosa che conta, ma è la profusione dello stile, nello sport aggraziato che fu di Bill Tilden, a farne un gigante dei nostri tempi.
Sposato con Yulia, padre di due bimbi e una laurea in filosofia nel carniere, perché anche il cervello esige il suo tributo, Misha deve molto delle proprie fortune a tale Boris Sobkin, enigmatico docente universitario di matematica prestato al tennis sotto forma di padre-allenatore. Il fruttuoso sodalizio risale già alla fine degli anni ’90 quando, nei circoli spesso poco confortevoli messi a disposizione dei militari, Sobkin intravede in un bambino dal carattere turbolento e inquieto – quanto di peggio per le dinamiche cerebrali che governano il tennis – le stimmate del campione. Farà, anzi faranno, un lavoro enorme. Il resto è una storia a lieto fine.
Laureato ad honorem all’università delle traiettorie con specializzazione per quelle impossibili, tecnicamente Youzhny è stato un tennista senza lacune. Competente in ogni segmento del gioco e profondo conoscitore dell’uso scientifico delle rotazioni, Colonel – l’ovvio soprannome che echeggia nel circus – ha dipinto tennis, un po’ Mondrian e un po’ Kandinskij, grazie anche a un rovescio efficace, elegante e personale insieme. Un movimento, il suo, riconoscibile al buio tra migliaia, che nasce a due mani nella preparazione per poi sprigionare il meglio di sé ricorrendo al solo arto dominante. Né bimane, né monomane, quindi, ma a ‘a una mano e mezzo’, come ribattezzato dall’impeccabile etichettatore con licenza di far sorridere, Gianni Clerici. Per uno cresciuto per sua stessa ammissione nel mito di Stefan Edberg – il lato sinistro del dio Tennis – non poteva andare diversamente. Gioia.
Il ritiro di un campione è sempre un piccolo lutto per chi, con lui, ha condiviso un susseguirsi di emozioni. Tuttavia, la parabola umana e agonistica del Colonnello, atleta russo e pertanto meritorio di considerazioni ad hoc, racchiude in sé almeno due insegnamenti che sarebbe delittuoso non fare nostri. Il primo: la possibilità nella vita e nello sport, per molti versi la stessa cosa, di agire in maniera produttiva sul nostro carattere, complesso a piacere, per conseguire gli obiettivi prefissati. Il secondo: mai rassegnarsi ad anteporre incondizionatamente il funzionale, o ciò che il mainstream reputa tale, al bello. Perché, potrà sembrare utopia, talvolta coincidono e il risultato finale ha tutto un altro sapore. Anche nel secolo XXI, sovente brutalizzato da racchette atomiche e muscoli da supereroi.
Do svidánija, Colonnello. Ci mancherai.
Teo Parini
Articolo in collaborazione con www.ticinonotizie.it