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In Breve

| 28 marzo 2019, 09:30

La recensione: Dumbo

Tim Burton reinventa l'elefantino volante, lo dilata nel tempo. Elimina la dimensione onirica dell’originale, ne sottolinea i momenti più bui, ma ne conserva la tenerezza

La recensione: Dumbo

L’uomo e l’elefantino sono complementari. All’uno manca un braccio, l’altro ha le orecchie troppo grandi. Alla loro maniera, sono dei freak, e non a caso lavorano in un circo. La gente li guarda in modo strano, anche se uno è un eroe di guerra. Ma della patria non importa a nessuno, neanche nel 1919, alla fine del primo conflitto mondiale.

Il mondo è un luogo cupo, dove alla bellezza dei tramonti si contrappone la tenebra che si annida nelle persone, anche se siamo in una favola. Il cinema di Tim Burton è questo, e molto di più.

Ama mettere i suoi protagonisti ai margini, li dipinge come sognatori incompresi, esseri umani un po’ strambi, mostri per i più. Cadaveri tornati dalla tomba, variazioni di Frankenstein, vampiri, orchi all’apparenza gentili… Il regista si conferma ancora una volta un affabulatore, campione delle famiglie disfunzionali, maestro nel mostrare il lato oscuro dell’essere adulti.

“Senza storie ci resterebbero solo la politica e i supermarket. E che razza di mondo sarebbe, un mondo così?”, sostenevano in Big Fish. Così Burton reinventa Dumbo, lo dilata nel tempo. Elimina la dimensione onirica dell’originale, ne sottolinea i momenti più bui. Conserva la tenerezza, esalta i colori, cerca di essere imprevedibile. Sa quando non deve prendersi troppo sul serio, inserisce le sue sfumature dark (l’attrazione da incubo, le ombre che si allungano). Mette in scena il più grande spettacolo del mondo con la giusta leggerezza, costruendo il suo racconto anche a misura di bambino.

Dumbo, quello del 1941, resta un piccolo capolavoro inavvicinabile. Ma Burton prova a reinventare, a sviluppare una vena ecologista, a dare più respiro a una perla che durava poco più di un’ora.

Resuscita l’innocenza dello sguardo, quella che spingeva Johnny Depp in Ed Wood. Resta all’interno dei canoni Disney, ma non riproduce la copia carbone di quello che fu. Elimina alcuni personaggi, ne crea di nuovi, sempre più al limite, combattuti tra le imposizioni e la voglia di libertà. Il suo non è un live actionanonimo, si può vedere una precisa cifra stilistica, e torna a lavorare anche con Michael Keaton (ve lo ricordate in Beetlejuice – Spiritello porcello?).

Ma la vera domanda sta a monte. In molti si interrogano sulla necessità di riportare sullo schermo i classici Disney che hanno fatto scuola. Per la produzione gli incassi sono garantiti, ma non sempre i linguaggi cambiano o le avventure vengono attualizzate. Sono remake “postmoderni”, che fanno storcere il naso ai puristi. Ma l’estetica visionaria di Burton riesce a far volare anche gli elefanti, rivendicando l’uguaglianza e la centralità degli affetti.

Sembra di rivedere la sequenza in cui Ed Wood si sedeva a tavola con Orson Welles. Il “peggiore” e il migliore, faccia a faccia, ma con la stessa idea di cinema. Un sogno per cui bisogna combattere, per cui non si può scendere a compromessi. E così Burton sceglie di dirigere reietti, emarginati, orfani, per ricordare che la voce degli ultimi, alla fine, è quella che risuona più forte.

Recensione tratta dal cinematografo.it

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