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In Breve

| 24 gennaio 2020, 12:04

La recensione: 1917

Bellum o bello? Questo è il problema. Mendes si muove tra gamification e superfetazione, per un war-movie istantaneo, interessato a mettere in scena soprattutto le singole performance tecniche. Discutibile

1917 di Sam Mendes

1917 di Sam Mendes

In un celebre romanzo di Josè Saramago, un’intera nazione veniva colpita all’improvviso da un’epidemia di cecità. Una cosa simile sembra essere accaduta ai membri dell’Academy e al popolo di critici davanti a 1917, la nuova osannata fatica di Sam Mendes. Oppure a noi, che invece lo abbiamo detestato. Diversamente dalla verità, la cataratta non sta nel mezzo. Questo è uno di quei film che odi o ami, destinato a dividere più di Mosé con le acque del mar Rosso.

Dell’antefatto la visione poco aggiunge che non sia già stato detto dal trailer. C’è la grande guerra. Gli inglesi fronteggiano quei bastardi dei tedeschi (non sono ancora nazisti ma il giudizio è retroattivo). Un generale affida a un paio di militi ignoti una missione suicida, il genere predice il suo svolgimento: l’amicizia in trincea e l’obbligo del coraggio, l’obbedienza fanatica e l’umile eroismo, la sollecitudine della donna del popolo e la cortesia postuma.

Tra una missiva per il fronte e una lettera da mandare a chi è rimasto a casa, l’azione del caporale Schofield (George MacKay) resta sempre confinata dentro un protocollo. Al netto delle situazioni via via più estreme che gli si parano davanti. La sceneggiatura è un bignami di cinema di guerra con tutti i tòpoi. Gli elementi della trama sono immediatamente riconoscibili, dovendo fornire non un contenuto ma un contesto. Il protocollo d’azione.

Se a Schofield, prima di un fucile, daranno una mappa e un messaggio nell’illusione che bastino, allo spettatore Mendes fornisce le istruzioni d’uso del film, dissimulando il vero fine dell’operazione. A Mendes interessa raccontare altro. O meglio, interessa altro che raccontare. La messa tra parentesi del contenuto è funzionale alla messa in scena della forma. Dal protocollo d’azione si passa all’azione del protocollo. Più o meno come il suo avatar da combattimento, che passa attraverso vari livelli di difficoltà nell’esecuzione della prova.

La strutturazione in tour-de-force (fisico, tecnico, stilistico) dell’intera operazione non è solo invadente ma anche immanente. Al punto che ogni altra cosa gli è soggetta. Prendiamo il piano sequenza integrale del film: non è motivato bazianamente da una volontà di adesione alla realtà ma si configura come sfacciato artificio, non tanto e non solo perché ci sono degli evidenti momenti di stacco durante la visione, ma perché alla continuità spaziale non corrisponde una continuità temporale. Il tempo della riproduzione (due ore) e quello della rappresentazione (almeno mezza giornata) non coincidono. È un’indicazione piuttosto eloquente del disinteresse di Mendes nei confronti della storia che racconta (e del suo peso morale) ma non una prova sufficiente dell’interesse verso l’esperienza sensoriale dello spettatore (qualcuno può onestamente affermare che con un lavoro di montaggio non sarebbe riuscito a ricreare un effetto di immedesimazione ancora più grande?).
È uno sforzo non giustificato, perciò superfluo.

Il film rifiuta apertamente l’aderenza a una necessità, un canone, persino a uno stile, facendo dell’accessorio un abito. Senza trarne le dovute conseguenze in termini di posizionamento. Il trionfo dell’ornamentale e della dissipazione, della pomposità e dello spreco non viene orchestrato dentro un discorso post-moderno sul cinema e il cinema bellico, ma si alimenta della vanità di superbi solisti. Il corpo a corpo di ogni guerra, l’inaccettabile, disumano scannarsi tra simili, resta nell’ombra (si veda lo scontro con il tedesco) o fuoricampo (il ferimento di Blake).

Esercizio conservativo, piattamente ludico, 1917 ha l’architettura narrativa di un videogioco. La filosofia del gaming sembra influenzarlo a un livello profondo, riducendo ogni possibilità di esperienza alla performatività. Oltre ogni fruibile sottotesto morale, immorale, scatologico ed escatologico, del war-movie rimane il pretesto, la quinta del pezzo di bravura, dell’abilità tecnica, dell’estro. Dell’epica un tono di voce. Dell’orrore una profanazione fisica. Dell’emozione un effetto. Prima del film ci sono Sam Mendes e Roger Deakins, Thomas Newman e Dennis Gassner.

1917 lascia il tempo e trova uno specchietto per le allodole. Il dichiarato omaggio alla memoria del nonno di Mendes è un ricamo da marketing sentimentale. L’iperrealismo del dettaglio, l’accuratezza scenografica, lo spreco di camei (Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch), i sinuosi e a tratti vertiginosi movimenti di macchina, i giochi di luce espressionistici, il taglia e cuci delle scene madri, debitamente a orologeria e volutamente “separate” dall’insieme, segnalano ogni volta un gesto che precede ed eccede quello che vediamo sullo schermo, un’istanza performante che fagocita l’esito della performance per presentarsi come marchio, griffa. Un saluto al bel cinema di guerra per un cinema di guerra bello. Chi può, resti in trincea.

Recensione tratta dal cinematografo.it

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