Lifestyle - 07 marzo 2023, 12:47

"Diafano Opaco", il quinto capitolo del romanzo online di Maurizio Denti Pompiani

Foto: Maurizio Denti Pompiani©

Foto: Maurizio Denti Pompiani©

Suona il cellulare, rispondo d’istinto alla sveglia che ho puntato la sera prima e a momenti mi spacco un timpano.

Qualche secondo per realizzare dove mi trovo.

Qualcuno in più per lavarmi faccia e denti.

Mi vesto e scendo per fare la colazione compresa nel prezzo.

Nell'aria c'è ancora l'odore nauseante del purè della cena.

In sala da pranzo stanziano il thermos del tè, quello del caffè tossico liofilizzato, le mini vaschette di plastica con la marmellata di plastica, quelle del burro sintetico, la spremuta di un frutto che non ha mai neanche visto e le fette di un pane che ha tutti i sapori che riesco a immaginarmi meno quello che dovrebbe avere.

Avevo abbastanza fame da mangiare lo stesso. Mangiai e telefonai:

“Pronto?  È il dottor Calcagno?”

“Il Dottor Calcagno è nel suo studio! Chi lo desidera?” dice una, con la voce da segretaria.

“Sono Luigi Ranzetti della Elio's Power, eravamo d’accordo per un appuntamento.”

“Ha già fissato un appuntamento col dottore?”

“Sì. Eravamo d'accordo che avrei chiamato quando fossi arrivato.”

“Attenda un attimo in linea che chiedo.”

Partì un refrain di una decina di misure di una versione da querela di “What a wonderful world” che si ripeté noiosamente per troppe volte.

“Signor Ranzetti, buon giorno” disse una voce profonda da uomo con spiccata cantilena locale.

“Buon giorno dottore. Sono…”

“Come va?... Come eravamo rimasti? Scusi ma, con tutti questi impegni…”

“Che l'avrei chiamata io non appena fossi arrivato qui.”

“Ah! Sì, sì... ora ricordo... l'aspettavo ieri. Ha portato tutto? I documenti? Ha presentato i permessi in Comune?”

“Mi appresto a farlo stamattina. Avrei bisogno di incontrarla, magari nel pomeriggio, per illustrarle alcune cose in merito alla parte economica relativa ai rimborsi Statali: il nuovo Conto Energia, gli eco-incentivi, il piano di ammortamento bancario eccetera, e avrei anche la copia del progetto, per lei, da presentare in assemblea.”

“Sì, ieri, la mia segretaria, mi ha detto qualcosa a riguardo. Deve averle telefonato qualcuno della sua ditta.”

“Infatti avrei dovuto venire ieri, ma... mi spiace, le chiedo scusa, ma ho avuto un piccolo contrattempo: il comune era chiuso per assemblea.”

“Ah... che sfortunata coincidenza. È che... oggi, non sarei proprio liberissimo... avrei un impegno improcrastinabile. Ho tentato di farla avvisare ieri, ma la mia segretaria mi ha detto che il suo telefono risultava irraggiungibile. Per cui ha lasciato detto alla sua ditta, non l'hanno avvisata dalla sua ditta?”

“Non che mi risulti. Probabilmente mi trovavo in una zona non coperta dal segnale. Ho notato che ce ne sono parecchie, da queste parti.”

“Eh sì, purtroppo è così. Le spiace se le chiedessi il favore di spostare l'appuntamento a stasera o, meglio ancora, a domani? Ecco sì... domani, così sono più tranquillo e avrò più tempo da dedicarle. Però... se per lei è un problema vedrò di organizzare una cosa molto più sbrigativa, in giornata”.

Sapevo benissimo cosa significava quel: “…una cosa più sbrigativa”, nel linguaggio degli affari, per cui replicai con un:

“No... No... Assolutamente! Nessun problema, si figuri”. Per due milioni di impianto questo ed altro.

“Bene... Bene! Sapevo che avrebbe compreso. Facciamo così, visto che devo scappare, adesso fissiamo già l’appuntamento per domani mattina alle... facciamo le nove? ... Ecco sì ...  mi dicono che le nove va bene. In caso di imprevisto avvisi pure Giulia, la mia segretaria, altrimenti restiamo d'accordo così... va bene per lei?”

“Benissimo, ci vediamo domani alle nove. Qui in ufficio da lei?”

“Sì, perfetto, in ufficio da me alle nove... scusi ancora, ma... vorrà dire che si farà un giorno di più al mare.” Rise alla sua battuta.

“Assolutamente nessun disturbo, si figuri.” dissi con tutta la formale cortesia possibile nell'ipocrisia assoluta della menzogna di maniera. In realtà mi giravano i coglioni. Cazzo se mi giravano! Guarda se per questo pirla devo lavorare anche il sabato. Altra notte qui! Chi glielo dice adesso a Paola? Quella iena mi sbrana.

Il sole di quella mattina, era inconsueto e fuori luogo come un ritratto di Maria Teresa di Calcutta a casa di Marilyn Manson. Con quella luce, la villa e il parco Rococò sembravano ancora più belli. Gli alberi, come primordiali impianti solari all'avanguardia, orientavano impercettibilmente le proprie foglie verso la tiepida plafoniera cosmica per captarne al meglio il plasma vitale. I pavoni laceravano il silenzio del parco con agghiaccianti richiami che echeggiavano da lontano, partendo acuti e decrescendo fino a interrompersi bruscamente come lamenti di piccole vittime sacrificali scagliate dalla scalinata di una piramide di Teotihuacan.

La hall del Municipio, finalmente aperto, era ampia con alti soffitti a volta affrescati. Dietro un bancone lineare e un cartello con scritto: INFORMAZIONI, c'era un uomo che sembra affrescato anche lui ma senza aver mai ricevuto i benefici del restauro.

“Buon giorno, scusi… l'ufficio Tecnico?”

Lui stava spettegolando con una segretaria dell'ufficio attiguo e mi intimò con un cenno a mano aperta, di aspettare un attimo, continuando a spettegolare per un bel po’. Troppo per i miei gusti. Lo interruppi bruscamente:

“Scusi... L'ufficio Tecnico?”

Mi guardò scocciato, come se fossi io il maleducato. Risposi guardandolo da maleducato:

“Primo piano, seconda porta a sinistra!”. Come il cesso di una qualsiasi pizzeria.

“Grazie!” E vaffanculo!

Presi le scale con ampi gradini di serizzo dal bordo stondato. Mi misi in fila non prima di aver preso da un distributore automatico il numero dal quale arguii che avrei rischiato di passare gran parte della mia vita in quel posto. Avevo diligentemente raccolto tutta la documentazione necessaria nella mia cartelletta di cartone blu con l'elastico nero: progetto, dichiarazione firmata del geometra e la relazione tecnica. Incredibilmente, quando oramai avevo perso tutte le mie speranze, arrivò anche il mio turno. Si presentò un funzionario di circa la mia età che mi chiese i documenti e la mia carta d’identità. Si soffermò a guardarla, poi azzardò timidamente:

“Luigi Ranzetti?”

“Esatto. Sono io.”

“Di Vigevano?”

“Sì, esattamente. Perché?”

“Io sono Fabrizio. Fabrizio! Non ti ricordi di me?”

“A dire il vero io… Sì… Adesso non ho ben presente ma…”

“Il parco, gli scivoli, le vacanze al mare… venivi con tua nonna … Sei tu no?”

“Sì… io… ci venivo con mia nonna… Ma saranno trentacinque o… anche quaranta anni fa” Feci un rapido conto mentale:

“Eh sì… una quarantina ormai… Io sono Fabrizio, il figlio del falegname che stava sotto di voi… quante partite a pallone… ti ricordi?”

“Sì, adesso sì. Mi ricordo eccome. Il parco qui, gli scivoli, sì mi ricordo…” mentii.

“E ti ricordi Matilde?”

“Matilde?”

“Ma sì. Matilde! La figlia del custode, quella che ti voleva sposare…”

“Ah, si chiamava Matilde? Certo che me la ricordo. Che fine ha fatto?”

“Eh… Purtroppo non ha fatto una bella fine. Peccato, era la ragazza più bella della città, aveva pure vinto il titolo di miss Liguria ed era la favorita per il concorso di miss Italia.”

“Ma dai? E che fine ha fatto?”

“Purtroppo è morta giovane, a ventiquattro anni. Si è impiccata alla magnolia qui giù nel parco, a pochi giorni dalla finale.”, poi aggiunse in tono confidenziale: “Non si è mai riuscito a spiegare. In quei casi, vai a sapere cosa ti scatta nella testa. Si dice che facesse uso di droga. Sai com’è… in quegli ambienti.”

“Ah. mi dispiace. Che peccato.”

“Eh. Peccato sì. Comunque, mi fa piacere di averti incontrato. Ti lascio il mio numero, se ti fermi qualche giorno fatti sentire che andiamo a berci una birra e ci raccontiamo. Che bello che è stato incontrarti.”

“Volentieri Fabrizio. Ti telefono e ci facciamo una bella chiacchierata insieme.”


“Scusami ma desso devo andare. Consegna pure il plico al mio collega allo sportello qui di fianco. Allora ciao e ci sentiamo ok?”

“Contaci! Grazie.”

Mi spostai allo sportello adiacente:

“La metta pure lì - mi disse un funzionario apatico che non mi guardò neanche in faccia -, le faremo sapere.”

“Mi scusi ma, quanto tempo ci vorrà... circa?”

Mi concesse appena il suo sguardo schifato e mi rispose a fatica:

“Non lo so... abbiamo trenta giorni di tempo. Nel peggiore dei casi le faremo sapere, in caso contrario vuol dire che può procedere: si chiama silenzio assenso.”

Amo gli impiegati pubblici senza luce negli occhi.

Amo la loro logica burocratica. La loro sarcastica telegrafia, la loro arroganza istituzionalizzata. Perfino il loro silenzio assenso.

Era quasi mezzogiorno perché avevo fame e anche perché lo diceva chiaramente l'orologio a muro da due soldi appeso sopra la testa di cazzo di quell'impiegato comunale. Appena messo piede fuori dal Municipio: squillò il telefono:

“Ciao!”. Con tono apatico e senza slanci.

“Ah! Ciao Paola, stavo giusto per telefonarti!”

“Sì, sì... stavi sempre per telefonarmi... intanto se non ti chiamo io... neanche ci pensi tu, a chiamarmi!”

“Ma se ti stavo... lascia perdere. Sono uscito adesso dal Comune, forse c'è un altro casino!”

“Un altro? Che cosa c'è adesso?”

“Niente... il cliente ha rimandato l'appuntamento a domani.”

“Cosa? ... Ma... ma se domani è sabato! Cosa cazzo stai combinando lì?”

“Eh!... Lo so! Purtroppo non è colpa mia.”

“Sì, va beh! Però... Anche tu... Allora non torni neanche domani?”

“Non lo so! E io cosa c’entro adesso scusa? Sembra che sia qui a divertirmi.”

“È che... cavolo, salta tutto... la cena... il week-end con TUO figlio. Non ci pensi a TUO figlio?”

“Secondo te non ci penso? È proprio per mio figlio che faccio tutto questo. Il tre per cento di due milioni lo sai quant'è?”

“Si... Sessantamila, non sono scema, i conti li so ancora fare.”

“Appunto. Sono disoccupato da sette anni. Dopo tanti sbattimenti, corsi, esami, lavori di merda e curriculum andati a vuoto. Sessantamila in un colpo solo non sono male no? Ci farebbero proprio comodo, non trovi?”

“Sì... se te li dà, quello... Per me... mah! Quella cifra lì... mi sembra strano... non avrai letto bene il contratto, come al solito.”

“Vedo che la tua stima in me cresce di giorno in giorno. L'ho letto benissimo il contratto. E questi sono gli accordi... oh... ci andrà bene per una volta, dopo tutta 'sta sfiga no? Questo contatto è il mio, il cliente ha contattato me per cui è il mio. Se il Tacconi vuole vendere il suo impianto da due testoni, il tre per cento me lo deve mollare eccome! Il contratto lo dice chiaramente. Adesso il coltello dalla parte del manico ce l'ho io.”

“Non lo so! Vorrei tanto essere ottimista come te, ma non ci riesco. Non di questi tempi. Ultimamente ci siamo presi solo delle grandi fregature.”

“A me lo dici? Ma questo è un campo in grande espansione che sta facendo numeri incredibili alla faccia della crisi e i soldi qui girano eccome, hai visto di che cifre si tratta o no? E poi non saranno mica tutti pirati in giro. Cerchiamo di vederla un po' al positivo... eh! Altrimenti... e poi che alternative avremmo?”

“Mah! ... a me quello lì non ispira troppa fiducia... speriamo. Speriamo che mi sbagli!”

Di solito non si sbaglia mai! Le donne hanno una specie di sesto senso per queste cose. Ero preoccupato:

“Dai! Su con la vita! Adesso devo chiudere che mi è rimasta poca carica nel telefono e devo essere reperibile!”

“Ok!... Ciao! Ci sentiamo dopo o… domani, se vuoi.”

“Non ti preoccupare... siamo nervosi tutti e due, lo capisco benissimo. Vedrai che le cose miglioreranno, anche tra di noi. Bacio... ciao!”

Ma lei aveva già riattaccato da tempo.

Nuvole nere si avvicinavano dalle montagne circostanti e non promettevano niente di buono.

L'inverno stava svelando il suo vero volto liberandosi alla svelta del suo stretto e ridicolo costume da Primavera ante litteram.

E adesso toccava chiamare il capo:

“Pronto, Ingegner Taccone...”.

“Buongiorno Ranzetti. Dica... novità? Incontrato il cliente? Presentato i progetti?”

“Sì... documenti tutto a posto. Al cliente ho parlato al telefono... Però...”

“Però?”

“Ha posticipato l'incontro a domani”

“Come domani?”

“Ha detto che vi ha avvisato”

“Avvisato a chi?”

“Non so... a lei, al commerciale… non l’ha fatto?”

“Io arrivo in ufficio adesso... non so niente. Comunque adesso indago... se l’avesse fatto Alba le avrebbe telefonato per darle la conferma, non l'ha avvertita?”

“No, almeno… non mi risulta”, mentii mentre controllai le sette chiamate con il numero della mia ditta dall'elenco delle chiamate perse.

“Alba mi conferma che... che ha tentato di chiamarla ma non è riuscita a rintracciarla... Non ha trovato le chiamate?”

“No! Ci dev'essere un problema di rete da queste parti, il telefono a volte non prende.”

“Mi sta dicendo ora che ha già provveduto lei con l’albergo. Adesso, le tocca procrastinare il suo ritorno.”

“Non c'è problema, non si preoccupi.”

“Devo avvisare qualcuno? Sua moglie?”

“Non si preoccupi, ho già provveduto, tutto a posto.”

“Le hanno fatto delle storie a casa?”

“Il solito, lo sa come sono fatte le donne no?”

“E il cliente come le è sembrato? Era contrariato?”

“No, al contrario, era ben disposto. Si sentiva quasi in colpa per il contrattempo. Se così fosse, adesso abbiamo un piccolo vantaggio psicologico.”

“Non l’avevo considerata da questo punto, ne faccia buon pro allora.”

“Lo farò senz’altro.”

“D'accordo Ranzetti, vorrà dire che le pagherò gli straordinari”

Sbuffai velocemente dal naso:

“Non si preoccupi per quello.”

“Posso dormire tranquillo?”

“Stia pure tranquillo, ho la situazione in mano, tutto sotto controllo!”

“Ci aggiorniamo allora. Mi raccomando, guardi che Tranquillo non ha fatto una bella fine”.

“Non si preoccupi. Ci aggiorniamo.”

Fatto! Ci voleva questa cagata di frase fatta finale. Anche questa è andata. E adesso? E adesso pizza.

Uscii dal parco. Percorsi il lungo mare con la robusta balaustra di travertino, fino alla prima pizzeria che trovai. Dovetti constatare che in quel posto non facevano la pizza a mezzogiorno e il menù di lavoro a quindici euro era un furto. Però c'era il pesce che in qualche modo giustificava il prezzo e il mio disappunto. Presi le linguine allo scoglio… scotte.

Il pesce era scongelato e il fritto aveva lo stesso sapore delle patatine che a loro volta sapevano di pesce. Il caffè era a parte, come il Vermentino e il Limoncello. Alla fine facevano venti Euro.

Pagai e scappai fuori.

Il sole leucemico aveva il colore e calore di una panna cotta, sembrava appena stato dimesso dal reparto infettivi dell’ospedale Maggiore di Genova.

Squillò il cellulare:

Cazzo vuoi?”

“Eheheh…”

“Allora! ... Cos'hai da rompermi le palle?... che... HO-DA-FA-RE!”

“Eheheh…”

“Eheheh! Due imbecilli al telefono.”

“Niente… Mi sono detto: perché non rompiamo un po' le palle a Luigi?... Tanto non ti interrompo vero?... Non stai facendo un cazzo vero?... Come al solito!”

“Fanculo Click! ... Ma tu non fai proprio un cazzo dalla mattina alla sera eh? Beato te...”.

“Ero, per caso, qui davanti al computer...”.

“Sì... per caso... ma se ci vivi, tu, davanti al computer.”

“Sto preparando una locandina per il gruppo del Fulvione.”

“Il Fulvione? Suona ancora?”

“Sempre!”

“Com'è che si chiama il suo gruppo? ... Bollenti spiriti.”

“Spiriti Bollenti!”

“Ah! Si... Spiriti Bollenti... Gli fai la locandina?... Dovresti farti pagare... Anzi no... dovresti pagarlo tu per fargliela!”

“Già... Mi tocca... faccio per passare un po’ di tempo, intanto mi diverto...”

“Tanto... non c'hai un cazzo da fare te... fai bene!”

“Ha parlato... Stakanov!”

“E mi hai telefonato rubando il mio preziosissimo tempo, che avrei dedicato assiduamente al mio duro e amato lavoro, solo per dirmi questa badiale stronzata?”

“Eheheh! Lavoro? Hai detto Lavoro? Tu? Tu non devi neanche pronunciarla quella nobile parola, che in bocca a te suona come una bestemmia, credimi!”

“Invece te...”

“Infatti, io non la pronuncio neanche: lavoro... mi hai mai sentito parlare di... come si dice? Lavoro?”

“Beh! In effetti... non me ne ricordo... eheheh.”

“Dammi un'idea... per quella locandina. Pirla!”

“Tu ce l’hai già qualche idea?”

“Qualcuna ma... niente di definitivo... a dire il vero niente di speciale! Hai presente quando non ti viene in mente niente di...”

“La tua vacuità mentale, a volte, quando non mi turba, mi è consolante: mi fa sentire molto più intelligente di quello che sono già. Direi che sei terapeutico. Saresti adatto per la pet therapy.”

“Senti, Nikola Tesla dei poveri, se hai finito con le stronzate…”

“Aspetta!... Adesso tiro fuori l'Emanuele Pirella che c'è in me.”

“Si, adesso tiri fuori il Pirella, che è il meglio, di te.”

“Ah! Ah! ... Spiritoso! Come si chiama?... Cos'è un tour?”

“Sì, un tour... Ed è anche il titolo del loro album: Suona Vuoto!’”

“Suona Vuoto?”

“Sì... Suona Vuoto!”

“Che titolo...”.

“Già!”.

“Fagli una testa pelata che si vede da un'angolazione decentrata, dall'alto, con una grossa cicatrice alla Frankenstein!”

“Eheheh... e sotto: “Suona Vuoto"... Bella... Una testa vuota, come la tua eheheh.”

“Sì... sì... Ridi!... Se non ci fossi io ad illuminarti...”

“Sì va beh! Non tirartela adesso. Te l'ho sempre detto che quando tiri fuori il Pirella dai il meglio di te!... Sei proprio un Pirella. Un grandissimo Pirella! Ah! Ho guardato su internet il sito ufficiale della città dove ti trovi... Pirella d’un Pirella!”

“E quindi?”

“Bella la villa, castello, che cazzo è? Anche il parco... bello!”

“Eh!... Te l'ho detto... Sei tu che non mi credi... dici che sono un ballista.”

“Perché: non è vero?”

“Assolutamente sì!”

“Appunto! Comunque. Quel giardino è una specie di monumento, un raro esempio di parco in stile Rococò perfettamente conservato, e con alberi rari, dislivelli vari, laghetti, corsi d’acqua, storie così!”

“Sì... e fantasmi!”

 “Fantasmi?... Che fantasmi?”

“Fantasmi!... Ieri sera in un bar del cazzo, senza neanche la gazzetta, parlavo con la barista... completamente sbullonata!”

“Figa?”

“Trombabile!”

“Trombabile!... Eheheh! Per te chi è che non è trombabile?”

“Dici... da viva?”

“Eheheh! No... Da morta!”

“Nessuna!”

“Eheheh!”

“Comunque, ti dicevo che la barista mi ha detto che, secondo una leggenda locale, e suffragata da alcuni ubriaconi e tossici del posto, ci sarebbe il fantasma di una contessa che si aggira qui nel parco... una storia così.”

“Ah, perché gli ubriaconi e i tossici del posto sono testimoni affidabili…”

“In vino veritas!”

“Eh Certo!”

“Figa?”

“Non lo so se il fantasma è figa!”

“Intendo la tipa?”

“Quale tipa?”

“Ma sì quella di ieri... La strafiga!”

“Ah! Cazzo non ricordarmela. Sparita! Non so... Non l'ho più vista... A parte che non ci sono neanche tornato al parco... Cioè, sono andato in comune ma poi, m'è venuto un attacco di fame e sono venuto qui direttamente al ristorante... Non so… Adesso ci torno. Magari la vedo qui in giro... se la vedo le faccio una foto di nascosto col telefonino e te la mando.”

“Bella idea, sì-sì-sì. Dai!”

“Paghi!”

“Sì, in natura! ... Attento però... Occhio ai fantasmi! Hihihi.”

“Il fantasma... Uno! Il fantasma di una Contessa o… Marchesa. Cazzo ne so!”

“Io mi preoccuperei.”

“Ma smettila da quando credi a queste palle?”

 “No, cos'hai capito? Io mi preoccuperei se fossi il fantasma. Perché mi sa che se lo incontri ti trombi anche quello!”

“Eheheh! Perché no? Non mi sono mai trombato una tipa... impalpabile.”

“Eheheh!... Cazzata!”

“Eheheh!”

“Vabbè! Va! ... Torno alla locandina che è meglio... sennò non combino un cazzo neanche oggi.”

“Novità? ... ”.

“Vaffancuore! Ciao Lu.”

“Ciao Marco. Buon... Lavoro.”

“Adesso che sei un tecnico, mi chiami Marco. Prima mi chiamavi Click!”

“Eheheh! Hai ragione... Allora, vaffanculo Click!”

“Così va meglio... Ciao!”

Il sole di panna cotta resiste come un piccolo budino in un frigorifero gigante.

Il mare sonnecchia e lo riconosci dal suo respiro profondo.

Sulle pietre nere, che qui chiamano spiaggia, si trova un po’ di tutto: rifiuti di ogni tipo, ma anche pezzi di rete da pesca sbiadita, galleggianti rotti e conchiglie apparentemente ordinate come in un giardino Feng-Shui.

Sul lungomare, guardando gli stabilimenti balneari dismessi, ricordavo di bagni interminabili, mia nonna che mi chiamava inutilmente fuori dall'acqua senza ottenere risposta. Fino a quando pronunciava la parola magica: merenda. Come erano buoni quei krapfen zuccherati straboccanti di crema che ci comprava ogni mattina. Lo zucchero a grana grossa mi si appiccicava fino a metà delle guance. Alla fine l'ultimo giro di lingua fuori dalla bocca raccoglieva gli ultimi dolcissimi diamanti. E ti restava la voglia. Valevano eccome la lunga e sofferta attesa del permesso di poter ritornare in acqua. Attesa che s'ingannava con gli amici di turno, a giocare con le biglie di plastica con le immagini di Gimondi e Mercks, Baronchelli e Bitossi, sulla poca sabbia, che i gestori degli attigui stabilimenti balneari a pagamento, si facevano portare per la stagione, allo scopo di dare a quel luogo le sembianze di una spiaggia vera e giustificare il salasso dell'affitto dell'ombrellone, del lettino, dell'entrata, delle bibite, degli inarrivabili gelati e dell'aria che respiravi. Noi invece eravamo quelli della spiaggia libera, motivo sufficiente per cui, ogni tanto, qualche bagnino diventava scorbutico e ci cacciava via, senza un comprensibile motivo.

La Tramontana gelida giocava con le carte scolorite dei gelati dell'estate scorsa, mi bruciava il naso e mi faceva lacrimare gli occhi. Sulla battigia una moria di milioni di piccole meduse gelatinose, bluastre e putrescenti, a forma di orecchio umano emanavano un tanfo insopportabile. Mi divertivo a pensare che fossero le orecchie delle persone venute in questo luogo a passeggiare cui, quella lama di vento, aveva reciso come rose rinsecchite, proprio come stava facendo le mie, che tra un po' si sarebbero staccate mescolandosi a quelle.

Onde evitare che ciò accadesse pensai fosse meglio tornare in albergo. Mi avviai armato di giornale per ingannare un po' del tempo di quella mia cupa pseudo vacanza forzata, possibilmente prima che quel sole si sciogliesse di nuovo in acqua. Ma avevo promesso una foto a Click, sicuramente il motivo per per cui mi ritrovavo ancora davanti all’ingresso del parco: Le promesse sono promesse mentii spudoratamente a me stesso. Appena dentro - a sinistra in basso, oltre le siepi di Pittosporo, in un'ampia zona depressa, due o tre metri più sotto, contornata da Platani enormi, Cipressi Calvi e una quinta arborea di Tassi - vidi l'area attrezzata per i bambini con gli scivoli diversi da come li ricordavo, naturalmente più moderni ed articolati, fissati su impalcature complesse che sembravano mini percorsi di guerra. Le altalene, il tronco in bilico e nuove strutture contorte su cui i bambini potevano arrampicarsi spericolatamente, cadere e magari rompersi l'osso del collo. Raggiunsi l’area scendendo da una scivolosa scalinata ammazza-vecchie di pietra lavica verde scuro e con gradini irregolari e sbrecciati, vista la cui pericolosità, dev'essere stato saggiamente aggiunto di recente, dal Comune, un parapetto.

Mi sedetti sull'ultimo vagone di un mini trenino di legno osservando attorno per ingannare il tempo che tanto dovevo comunque perdere. Come mi ci sarei divertito io, se avessi avuto tutti questi giochi a disposizione allora, mentre a quei tempi, per giocare mi bastavano uno scivolo, un paio di altalene scassate e questa pianta gigantesca: Adesso, invece, guarda qui: quanto ben di Dio, pensai. C’erano i bambini con le mamme, i bambini col papà e quelli con la baby-sitter. Le mamme si distinguevano dalle baby-sitter perché correvano sempre appresso ai loro piccoli cercando, più o meno efficacemente, di prevenire invece che curare. Ogni tanto si fermavano vicino a un'altra mamma e si raccontavano delle loro gravidanze, delle diarree dei bambini e di come gli uomini non aiutassero mai in casa. Parlavano e si distraevano ma solo per brevi tratti, mentre i loro pargoli scalmanati ne approfittavano subito e ce la mettevano tutta per farsi male e litigavano tra di loro per avere la precedenza alla scaletta dello scivolo. I più grandicelli, per farsi vedere, si facevano scivolare a testa in giù, imitati prontamente dai più giovani e meno esperti che finivano puntualmente col mangiare la terra e piangevano.

Le mamme, attenzionate dal pianto dei loro piccoli gangsters accorrevano prontamente, armate di salviettine disinfettanti e cerotti, in soccorso dei loro piccoli imbranati e poi li sgridavano ammonendoli di non farlo mai più mentre questi ultimi urlavano e tentavano la fuga terrorizzati da quel liquido ustionante.

I papà invece, come ridestati improvvisamente da un incantesimo, richiamati dal pianto dei loro piccoli, staccavano lo sguardo dal culo perfetto delle giovani baby-sitter dell'Est, e, inorgogliti dalla temerarietà del proprio figlio, facevano formalmente cenno di no con la testa come per dire: "Te l'avevo detto, così impari! Ti fai le ossa!", poi tuffavano la testa tra le pagine sportive del proprio quotidiano rosa, aperto come un separé giapponese che li separava definitivamente dalle loro responsabilità e dal resto del mondo. Infine, le baby-sitter, a loro volta, consapevoli oggetti delle nostalgiche bramosie dei papà, millantavano assoluta indifferenza parlando ore al telefonino, con le unghie decorate, senza muoversi di un millimetro dalla loro provocante posa provata e riprovata per l’occasione, nella reiterata frequentazione di quel luogo, studiata apposta per stuzzicare gli affascinanti, brizzolati, loro estimatori che non lesinavano motivi per accrescerne la propria autostima. Al centro della radura c'era il gazebo ottagonale di legno multi strato col tetto di tegole canadesi. A fianco del gazebo: la mia cara, vecchia Magnolia Grandiflora dalle dimensioni spettacolari. Era ancora presente, sempre uguale, come se fosse stata lì apposta ad aspettarmi per tutto questo tempo. Forse era proprio quella a cui Matilde si era impiccata. La salutai ossequiosamente con lo sguardo e un piccolo sorriso nostalgico apparve sulle mie labbra. Notai che aveva ormai perso gran parte delle sue pesanti foglie. Sembrava ormai alla fine del suo ciclo vitale o forse era solo una cosa normale per quella stagione.

Le bambine, incuranti di tutto ciò, raccoglievano le grosse foglie secche e legnose dai piedi di quella pianta semi spoglia, e le trasformavano in piatti e vassoi che riempivano accuratamente di tutto e poi servivano sui mini tavoli adiacenti, con mini panca annessa, agli adulti genitori con le ginocchia anchilosate, che aspettano pazientemente quella colazione di sassi, semi e insetti morti attentamente preselezionati per loro.

Le mamme ringraziavano con un sorriso accondiscendente le piccole cameriere dilette e di nascosto continuavano indifferenti a intaccare furtivamente, con la punta delle dita, la focaccia comprata loro poco prima per la merenda, non senza lancinanti sensi di colpa. La Tramontana gelida muoveva le foglie e asciugava le schiene sudate dei bambini che non se ne curavano affatto e poi sicuramente si ammalavano.

Mi resi conto di quanto fosse impossibile concentrarmi sul mio sudoku di livello diabolico, con tutto quel trambusto. Decisi che sarebbe stato meglio spostarsi dall'altra parte del parco, dove la gente non arrivava perché c’era da camminare. Camminai fino a quando le voci squillanti dei bimbi sfumarono lentamente e un angelo di pietra con la tromba suonava, finalmente, la sua liquida melodia rilassante. Quando raggiunsi quel posto, che ormai conoscevo, un leggero sospiro di delusione smascherò la mia finta rassegnazione per ciò che pensavo di dare per scontato, e cioè che la panchina vicino al canneto fosse ovviamente vuota.

Niente foto per Click. Era questo il vero problema… naturalmente.

Raggiunsi lo stesso la panchina del mio incantevole incontro del giorno precedente e mi ci sedetti. Cercai nelle tasche un'improbabile caramella e, nell'ultima che andai ad esplorare, ne trovai una all’eucalipto con la carta blu e la faccia di un monaco disegnata in nero, una di quelle caramelle diaboliche che quando le metti in bocca ti sembra di succhiare un'intera foresta di conifere Canadese, che ti infiammano le mucose del naso e ti fanno lacrimare gli occhi, ad ogni respiro, per un'ora.

Nella stessa tasca trovai anche il segnalibro.

La carta della caramella diventò presto una pallina da maneggiare nervosamente tra le dita, fino a quando mi cadde prevedibilmente a terra.

Mi chinai per raccoglierla.

Semicoperto dalla terra, intravidi qualcosa: un orecchino. Lo raccolsi. Romboidale, molto elaborato, per quel che ne sapessi, sembrava d'oro, con quattro piccoli brillanti agli angoli, un motivo quadrato con al centro una pietra verde chiaro - che avrebbe anche potuto essere uno smeraldo -contornata da un cerchio di pietre nere e, sopra di esso, un altro brillante a cui era applicata la chiusura. Lo riconobbi subito: era l’orecchino di quella splendida ragazza del libro.

Magari vale un sacco di soldi. Magari è bigiotteria con un pezzo di plastica verde e buonanotte. Sta di fatto che è il suo, ed ora ha un motivo in più per venire qui a cercarlo.

Misi in tasca l'orecchino e la carta della caramella. Mi alzai e andai in cerca di un bar e del suo cesso. In città, naturalmente!

(Tutti i diritti sono riservati) ©

Maurizio Denti Pompiani

maudenpo@gmail.com

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A MARZO?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare 2024" su Spreaker.
SU