Era un giorno d’aprile freddo e piovoso, quando sulla collina di Montebello entrai per la prima volta nel prato antistante il Castello.
La nebbiolina rendeva l’atmosfera un po’ triste, quasi misteriosa, mentre le mura antiche trasmettevano qualcosa di sinistro.
Il Castello era tra l’abbandonato e forse posso salvarmi.
Io, quel giorno pensai, non ce la può fare.
Non conoscevo Davide Parise e Deborah Ceriani.
La loro forza, il loro coraggio, devo dire la loro incoscienza.
Spiegarono ai visitatori che volevano riportare in vita quel monumento dimenticato, quasi abbandonato.
Una storia davvero particolare.
Quando si arriva a Montebello della Battaglia, tra le dolci colline dell’Oltrepò Pavese, in una calda e limpida mattina estiva, si nota subito sulla sommità della collina, accanto alla Chiesa parrocchiale, un antico edificio, sormontato da un’alta torre che ora termina con una terrazza, ma che fino all’inizio del secolo scorso era coperta da un caratteristico tetto a tegole.
Il Castello ha cambiato diverse destinazioni d’uso e questo ha lasciato segni di trasformazione nelle sale, ci sono anche alcune stufe antiche e pesanti, le scale sono agibili e portano su su.
E’ difficile descrivere l’emozione di entrare nei saloni, nei piccoli locali, nella cantina, ognuno di questi posti ha una storia da raccontare, dame eleganti, scolari svogliati, solerti impiegati.
Questa costruzione è il Castello, ora Palazzo Beccaria, considerato il più antico di Montebello, poiché venne edificato negli ultimi anni del medioevo e dall’incisione su un mattone in arenaria, posto sopra il portale d’ingresso, si desume che la data di costruzione risalga all’incirca al 1472.
Chi lo fece costruire fu la storica famiglia pavese dei Beccaria, che ricevette Montebello come feudo il 22 febbraio 1469, assieme a quello di Montecalvo, dal Duca di Milano Galeazzo Maria Sforza Visconti, che lo donò a Girolamo Beccaria, con il titolo di conte di Montebello.
Allora il precedente Castello, che risaliva all’alto Medioevo, era caduto in rovina e pertanto la famiglia Beccaria decise di costruire la nuova residenza sulla piazza della Chiesa locale.
Ma probabilmente i Beccaria usarono poche volte la loro residenza di campagna dal momento che possedevano una sontuosa villa nel centro storico di Milano e verso la prima metà del Cinquecento, il Palazzo, o forse solo una piccola parte dello stesso, risulta essere diventato di proprietà della nobile famiglia pavese dei Bellocchio.
Nel 1643, durante una calda sera di fine maggio, l’abate del monastero, Padre Floriano
Nel 1851-52 il conte Giuseppe Bellocchio, con la madre Carolina Raggi, vendette parte del palazzo, comprendente la torre e metà del giardino retrostante, all’avvocato Ernesto De Ghislanzoni, che qualche anno dopo ebbe anche il titolo di barone, mentre la rimanente parte dell’edificio, con l’altra metà del giardino, fu acquistata dal Comune di Montebello, il cui sindaco era allora il marchese Luigi Bellisomi, per 12.000 lire.
Il conte Bellocchio si trasferì nel suo palazzo di Voghera, dove morì senza figli nel 1894, a 70 anni.
L’Amministrazione Comunale trasferì nella parte del Palazzo di proprietà gli uffici comunali, che prima erano in una serie di angusti locali in via Famiglia Cignoli, poi anche la scuola elementare e le abitazioni dei dipendenti che furono sistemati nell’edificio.
Nel 1868, per l’inaugurazione del monumento al Cavalleggero, la parte comunale del palazzo venne completamente restaurata su un progetto dell’ingegnere Giuseppe Billotta e sulla facciata che dava sulla piazzetta di spalle al monumento venne collocato un medaglione, poi affrescato con lo stemma comunale, con due draghi rampanti e nel mezzo un albero, ossia il blasone appartenuto alla famiglia Delconte, antica feudataria del paese, estintasi nel 1864.
Più tardi, nel 1893, con l’aggiunta dell’entrata dalla salita della Chiesa, fu aperto il primo ufficio postale di Montebello, cui si unì pochi anni dopo quello telegrafico.
In questo palazzo, per oltre settant’anni, tante generazioni di montebellesi impararono a leggere e scrivere, amministrarono il paese e altri ancora si recarono nel palazzo per le tante esigenze burocratiche.
Nel 1923-24, dopo la costruzione dell’attuale edificio scolastico e municipale, la famiglia De Ghislanzoni acquistò la parte dismessa, unificando così tutto il palazzo e nel 1942, alla morte del barone don Ernesto, la figlia Eugenia, sposata con il conte Premoli, ne divenne la proprietaria.
Da qui iniziò la lenta ma inesorabile decadenza del fabbricato, prima infelici ristrutturazioni lo privarono delle due basse ali che delimitavano il cortile, poi iniziò il deperimento della parte ex comunale.
Fino a metà degli anni Sessanta la villa rimase abitata e in occasione della commemorazione della battaglia del 20 maggio era offerto un rinfresco ai partecipanti, però l’incuria dei proprietari e l’allontanamento del fedele custode fecero si che l’intero fabbricato si deteriorasse a tal punto da renderne impossibile l’abitabilità.
Ma all’inizio del 2013 Davide Parisi, comprò il palazzo dal conte Ludovico Premoli, con lo scopo di far rivivere il castello come luogo dal quale partire per valorizzare la storia dell’Oltrepò.
Lo stesso Davide Parisi, definisce questo progetto un sogno.
Il palazzo attualmente comprende cinquanta tra stanze, camere e saloni per un’area complessiva di circa 2.500 metri quadrati, ora al centro di un lungo progetto di riqualificazione seguito dall’architetto Stefano Quaglini in stretta collaborazione con la sovraintendenza delle Belle Arti di Milano.
Tra le molte curiosità, al secondo piano, in una delle sale che era stata trasformata in aula scolastica, c’è una farmacia, mimetizzata dietro un pannello, con prodotti degli anni Sessanta.
E Davide Parise con Deborah Ceriani non ha mai smesso di crederci, li ho visti dedicarsi con amore alla rinascita di questo che definirei “scrigno di storia”.
E piano piano il Castello ha ripreso vita e luce, le persiane sono state aperte, i vetri ripuliti, le crepe riparate, i soffitti messi in sicurezza, il tutto sempre sotto lo sguardo attento dei Beni culturali.
La strada è davvero ancora lunga, ma questa è una storia ancora da scrivere che merita di essere seguita, perché c’è tanto cuore, tanta passione.