Per tutti era l'Avvocato, con la a rigorosamente maiuscola (non non avendo esercitato mai la professione). L'uomo che, alla guida della Fiat (e poi della Confindustria) ed anche alla presidenza della Juve ha segnato oltre mezzo secolo di storia del nostro Paese. E' stato, come scrisse a suo tempo Il Times, l'ultimo vero re d'Italia, anche se non ha mai portato la corona.
Oltre mezzo secolo di storia
Esattamente vent'anni fa, il 24 gennaio 2003, consumato in pochi mesi da un male terribile, se ne andava Gianni Agnelli, l'uomo che ha fatto della Fabbrica Italiana Automobili Torino un'azienda di stampo mondiale. La sua vicenda si è intrecciata con quelle dell'economia, della politica, ma anche dello sport e della cultura, facendo di Torino la capitale dell'auto e una città conosciuta in tutto il mondo.
Carisma, classe, eleganza, ironia: l'Avvocato era tutto questo (e molto altro). Nato il 12 marzo 1921, figlio di Edoardo e di Virginia Bourbon del Monte, in gioventù studiò al liceo classico D'Azeglio (lo stesso dei fondatori della Juve, ndr), poi dopo la guerra divenne per molti anni sindaco di Villar Perosa, nel pinerolese, dove la famiglia aveva la residenza estiva e dove la Juve per decenni ha giocato una storica amichevole di inizio stagione. Quella fu la sua unica parentesi politica, anche se si trattava di un impegno di rappresentanza: sarebbe poi diventato senatore a vita, ma nonostante le ripetute richieste di discesa in campo (che convinsero invece il fratello più giovane, Umberto) Gianni Agnelli non si candidò mai alle elezioni.
Da braccio destro ad erede di Valletta
Dopo la prematura scomparsa del padre, prima che toccasse a lui prendere le redini della Fiat, nel dopoguerra fu Vittorio Valletta a guidare l'azienda prima nei difficili anni della ricostruzione e poi in quelli che diedero il via al boom economico, con l'auto che divenne un bene di massa e non più uno strumento elitario utilizzato da pochi. Con decine di migliaia di persone che arrivarono dal sud e dalle più diverse regioni d'Italia per venire a lavorare a Torino.
Gianni Agnelli diventò prima il braccio destro di Valletta, poi l'amministratore delegato ed infine, nel 1966, assunse la presidenza del gruppo. Da allora non c'è stato un politico, un Presidente del Consiglio, ma anche un grande leader internazionale che non abbia avuto a che fare con lui. La Fiat nel corso degli anni ha 'cannibalizzato' gli altri marchi italiani, diventando l'unico costruttore italiano, raggiungendo infine un accordo con il vecchio Enzo Ferrari, per fare in modo che poi, alla morte del Drake, avvenuta il 14 agosto del 1988, toccasse alla Fiat (che già da alcuni anni aveva preso il comando delle operazioni) garantire la continuità aziendale e l'impegno in Formula 1.
I successi e i difficili anni Settanta
Ci sono stati tanti successi, ma anche alcune ombre, come la richiesta di aiuto alla Libia negli anni Settanta, segnati dalla crisi economica e petrolifera, quando i soldi di Gheddafi furono ossigeno puro per riuscire a superare un momento di grande difficoltà, una mossa che venne aspramente contestata all'epoca. Ci sono state le crisi aziendali da cui l'azienda (che nel corso degli anni, prima con Pomigliano, poi con Cassino, Termini Imerese e Melfi, ha creato altri stabilimenti in giro per l'Italia) ha sempre saputo uscire, anche se a fronte di pesanti sacrifici occupazionali e un massiccio ricorso alla cassa integrazione.
E' stato anche presidente di Confindustria per alcuni anni, ma Gianni Agnelli è stato sempre identificato con la Fiat, non per nulla nel 1994 si fece una eccezione, consentendogli di restare al timone, malgrado per statu avesse dovuto lasciare il passo. Ma quello era un momento delicatissimo per l'auto, che Agnelli visse in prima fila, portando l'azienda a celebrare nel 1999 i primi 100 anni di vita. "Quello che va bene per la Fiat va bene per l'Italia", era solito dire. A lungo è stato davvero così.
Da Ghidella a Romiti, sono stati numerosi i manager che hanno trascorso il tratto più importante della loro vita al fianco di Gianni Agnelli e delle cose Fiat. Come tanti sono stati i campioni dello sport che hanno legato le loro vicende alla Juve, la squadra di famiglia.
L'amore per la Juve e gli anni della presidenza
L'Avvocato divenne presidente della società nel dopoguerra, mentre il Grande Torino dominava la scena. Fu proprio la Juve a interrompere (dopo la tragedia di Superga) il predominio granata e la cosiddetta 'Juve danese', quella con i due Hansen, Prest e il giovane Boniperti è stata sempre quella preferita da Gianni Agnelli, forse perché legata alla sua gioventù e alle prime grandi vittorie.
Negli anni Settanta, dopo un decennio poco glorioso, l'Avvocato chiamò alla guida della società Boniperti per inaugurare un nuovo ciclo. L'ex capitano alla presidenza, con Agnelli patron e suggeritore dietro alle quinte: per una quindicina d'anni la Juve face mani basse di vittorie, prima in Italia e poi anche in Europa.
Facendo giocare ragazzi del sud come Furino, Causio, Anastasi e Cuccureddu la Juve diventò la fidanzata d'Italia, con molti operai Fiat immigrati che scelsero 'la squadra del padrone', come si diceva allora in termini dispregiativi, non capendo che questa scelta avvicinava milioni di persone al tifo bianconero e favoriva anche l'integrazione sociale. In una Torino che ancora in quegli anni vedeva campeggiare la famosa scritta 'non si affitta ai meridionali'.
La notte dell'Heysel
Tardelli, Bettega, Gentile, Cabrini e Rossi, tanto per citarne cinque, hanno vinto tutto con la Juve, segnando un'epoca. Zoff fu uno dei grandi colpi degli anni Settanta, mentre la Juve di Boniperti e Agnelli si segnalava per la vittoria ma anche l'attenzione ai conti. Fu per questo che non venne acquistato Gigi Riva e la stessa cosa successe più tardi con il giovane Maradona.
Arrivò invece 'per un tozzo di pane', come disse lo stesso Agnelli, un fenomeno come Michel Platini, grazie alla presenza della Fiat nell'est Europa fu possibile tesserare il polacco Boniek (da lui ribattezzato 'il bello di notte', perché giocava meglio in Europa) quando ancora c'era la 'cortina di ferro'. La Juve guidata in panchina da Trapattoni vinse tutto, compresa la Coppa Campioni, anche se la notte di Bruxelles è passata alla storia soprattutto per l'orrore e i morti. Il giorno seguente Agnelli fece una semplice dichiarazione: "In questo momento per la Juve e i suoi tifosi la coppa è l'ultimo pensiero". Punto.
Nel 1994, dopo un triennio poco felice con Boniperti di nuovo al timone della società (a seguito della fallimentare esperienza Montezemolo, con Maifredi in panchina), Gianni Agnelli lascò il ruolo di patron al fratello Umberto, che era stato il presidente a cavallo della fine degli anni Cinquanta e l'inizio del decennio successivo, quando il trio Charles-Sivori-Boniperti aveva fatto innamorare dei colori bianconeri milioni di persone. A condurre le operazioni fu la triade composta da Moggi, Giraudo e Bettega, che conquistò scudetti a raffica, la Champions a Roma e la Coppa Intercontinentale, prima che calciopoli travolgesse tutto e tutti.
Ma questo avvenne dopo che sia l'Avvocato che il Dottor Umberto erano scomparsi. E sono in molti a pensare che con un Agnelli ancora al timone della società o comunque in una posizione di comando, non sarebbe mai accaduto.
I soprannomi
Da Baggio soprannominato Raffaello ma anche 'coniglio bagnato', da 'Pinturicchio' Del Piero, Gianni Agnelli da grande esteta del football si è sempre dilettato con i soprannomi e i paragoni. Come quando disse che Michael Schumacher era il Pelè della Formula Uno, sottolineando nel contempo che non era costato un tozzo di pane come Platini. Ma proprio Schumi fu l'uomo che pose fine ad un digiuno di 21 anni, dando il via a'una abbuffata di titoli Mondiali per la Ferrari, anche se gli ultimi Agnelli non fece in tempo a vederli. Celebri anche le sue telefonate all'alba a giocatori e allenatori (soprattutto al Trap) con chiamate alle 6 di mattina per avere informazioni o sapere cosa non aveva funzionato il giorno prima in una partita.
Non amava lo stadio Delle Alpi e per farlo capire subito fece una battuta che rendeva bene l'idea: "Qui Rui Barros (portoghese alto poco più di 1,60, ndr) quasi non si vede", scherzando sulla fatica che faceva a notare anche il napoletano Silenzi, alto oltre un metro e novanta. E se un calciatore non gli piaceva, come ad esempio il russo Alejnikov, non le mandava a dire: "L'unico passaggio giusto che sa fare è quello all'indietro". Una bocciatura dell'Avvocato equivaleva ad una stroncatura, un suo complimento ad una promozione a pieni voti. E se veniva venduto un giocatore che apprezzava tirava fuori l'ironia: "Zidane ci mancherà, ma era più divertente che utile", disse dopo la cessione del fuoriclasse francese al Real.
I Giochi di Torino 2006 l'ultimo regalo
Si seppe che lo aveva colpito la malattia (la stessa che aveva portato via prematuramente il nipote prediletto 'Giovannino', l'erede designato mai salito al vertice dell'azienda, ma nel 2004 anche il fratello Umberto) pochi giorni dopo lo scudetto vinto con una entusiasmante rimonta ai danni dell'Inter il 5 maggio 2002.
"Solo leggere la lettera J mi emoziona, perché subito penso alla Juve", ha raccontato più volte. Il suo regalo per la città, prima di andarsene, fu l'essere l'ambasciatore di Torino nella corsa ai Giochi del 2006. Un traguardo che non sarebbe mai stato centrato senza il suo impegno diretto, la mediazione e il carisma che mise in campo a favore della sua città per far diventare il sogno a cinque cerchi una realtà.
L'addio il 24 gennaio 2003
La scomparsa prematura del figlio Edoardo, spesso non capito da molti membri della famiglia e dall'establishment Fiat, è stato il dolore più grande. Lo stesso che hanno provato decine di migliaia di torinesi alla notizia della sua morte. Per alcuni giorni un fiume composto e silenzioso di persone fece ore ed ore di coda al Lingotto per andare a dargli l'ultimo saluto, prima dei funerali.
Il ritornello di quasi tutto era uno solo: "Grazie a un uomo che ha sempre creduto nell'auto e nel lavoro". Che manca ancora tantissimo a tutti oggi, venti anni dopo.