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Lifestyle | 25 febbraio 2023, 15:22

"Diafano Opaco", Il secondo capitolo del romanzo online di Maurizio Denti Pompiani

Foto: Maurizio Denti Pompiani

Foto: Maurizio Denti Pompiani

Nei giorni invernali, che soffrono di senilità precoce, l'opalina del cielo trasuda, per osmosi, quel tipo di luce che deprime le persone e inganna i piccioni, che tornano alla spicciolata sotto le grondaie arrugginite dando un segno confutabile dell’arrivo della sera. I lampioni vecchi e ossidati dalla salsedine si accendono prematuramente come fari di scena più adatti a creare cupe atmosfere teatrali che a illuminare le strade.

Arrivai davanti a un’area verde con alberi così grandi che si potevano scorgere da molti isolati prima. Recintato da alte mura di pietra - con ampie finestre ovali inibite da robuste grate e grosse sbarre di ferro intaccate dalla ruggine e stipate dall’esondante vegetazione interna - c’era il parco Comunale. Tra due colonne in cemento, con tanto di acroteri, su un vecchio cancello in ferro battuto a doppia anta, un vecchio cartello biancastro laccato di smalto crepato - fissato lì alla meno peggio con un filo di ferro arrugginito - confermava la presenza del Municipio là dentro, da qualche parte, e che la chiusura del sontuoso parco che lo accoglieva sarebbe stata alle 19 in punto.

Sono le 17:00, faccio in tempo, pensai.

Percorsi in leggera salita il largo viale sterrato, che attraversa il parco in stile inglese, affiancato da imperscrutabili siepi di Pittosporo alte un paio di metri che mi impedivano di vedere altrove se non davanti e dietro di me. Mi meravigliai delle altissime fronde dei Pini marittimi e dalle dimensioni dei Lecci.  Solo molti metri dopo riuscii a scorgere un edificio medievaleggiante, una specie di castello austero, ipertrofico e recentemente ristrutturato, perfino bello in quella commistione architettonica tra il Barocco del castello e il Liberty del giardino. Di primo acchito mi sembrò un’attrazione di Gardaland: tetro e colorato, pacchiano e travisato, come una vecchia drag queen vestita da Barbie nella sua cassa da morto rosa confetto.

Davanti all'entrata, posti su piani diversi, circondati da palme grassocce e una finta scogliera piuttosto realistica, ingombravano due pittoreschi laghetti artificiali - collegati tra loro da rumorose cascatelle - nelle cui acque le Carpe Cinesi nuotavano lentamente e le troppe tartarughe d'acqua si riposavano sui pochi, piccoli massi, che affioravano dalla superficie, costrette a stare una sopra l'altra con insospettabile agilità da acrobati bulgari… in scatola. Aggirai quegli ornamenti acquatici tramite una delle due rampe laterali incurvate delimitate da ringhiere con croste di vernice bianco avorio.

La porta d'ingresso era imponente con ampie vetrate artistiche dai temi floreali a mosaico. Il telaio di legno massiccio era scuro e pesante. La porta era chiusa. Solo dopo vari tentativi di aprirla notai un cartello così in vista da risultare invisibile: OGGI GLI UFFICI CHIUDERANNO ALLE 17:00 CAUSA ASSEMBLEA INTERNA.

Guardai il telefono: erano le 17 e 10.

Provai inutilmente a bussare, a quanto sembrava, non doveva esserci più anima viva lì dentro, inoltre, anche se ci fosse stata non mi avrebbe sicuramente aperto.

“Merda!”, imprecai tre volte: “Mi tocca tornare domani!”. Ciò comportava il rinvio dell’appuntamento dell’indomani mattina con il cliente, che avrei dovuto posticipare nel pomeriggio salvo disponibilità dello stesso. Ed era proprio quella disponibilità, per nulla scontata, che mi procurava un’abbondante dose d’ansia, inquietudine e incazzatura.

Mentre associavo mentalmente la Comunione dei Santi alla tassonomia animale, lo sguardo mi scivolò a terra in un angolo della pallida soglia d’entrata in marmo botticino, forse attirato dal verde sgargiante di un accendino di plastica che raccolsi e dopo averne verificato il funzionamento decisi di tenere anche se non fumo, così, per ogni evenienza.

Fu uno strano comportamento, il mio, perché non sono mai stato previdente. Pensai di regalarglielo a Paola una volta tornato a casa e, a proposito di Paola, mi venne in mente che dovevo telefonarle per avvertirla che quella notte sarei stato costretto a pernottare lì e rimandare tutte le pratiche al giorno successivo. Realizzai anche che l’indomani era venerdì ergo, la mia consueta partita di calcetto sarebbe saltata perché, di sicuro, non ce l’avrei fatta a cavarmela in tempo per la sera. Ci sarebbe stato bisogno di avvisare anche Click, che, a sua volta, avrebbe avvisato tutti gli altri i quali avrebbero almeno potuto trovare in tempo un sostituto al sottoscritto.

Quando presi il telefono mi accorsi che mancava campo telefonico. La cosa mi stupì e mi irritò ulteriormente i nervi. Procedetti alla ricerca di un campo telefonico seguendo istintivamente un sentiero sinuoso che si perdeva tra grossi cespugli di Rododendro, Camelie, Palme, agrumi e altre stranezze botaniche. Tutt’attorno c’erano alberi silenziosi e talmente alti che sembravano perdersi tra quegli inquietanti nuvoloni che li sovrastavano come paramenti funebri di velluto grigio. La luce era stupenda. I colori sembravano filtrati da una lente polarizzata. Il verde del fogliame bagnato risaltava a tal punto che sembrava esplodere.

Non ricordavo bene in quale punto esatto di quel parco ma ci sarebbe dovuta essere stata un'area giochi dove mia nonna mi portava sempre a giocare e a fare merenda. Chissà che fine ha fatto, probabilmente non c'è più, pensai. Ricordavo in particolare, al centro di quell'area, una magnolia enorme, dove io e alcuni bambini del posto passavamo interi pomeriggi a giocare. E poi ricordavo una bambina. Una bella bambina mora, ne ricordavo gli occhi chiari, ma non come si chiamasse. Ricordai che un giorno chiese a mia nonna se potevamo sposarci. Mia nonna ne rise molto, ma la cosa, oltre che a divertirla, dovette averle fatto molta tenerezza. Così, forse per quel motivo, le rispose nel modo più serio e dolce che poteva, che eravamo ancora troppo giovani per queste cose ma che avremmo sicuramente avuto molto tempo davanti a noi per pensarci su. Così noi tornammo, come se niente fosse, fiduciosi, a giocare con le nostre biglie di plastica con le foto dei ciclisti visibili nel loro emisfero trasparente.

Ogni anno incontravo quella bimba, sempre lì al solito posto, e tutti gli anni facevamo pressappoco gli stessi giochi. Ricordavo che eravamo particolarmente affezionati l'uno dell'altra, lei univocamente innamorata di quell'amore innocente e inconscio che si comincia a percepire - soprattutto nelle femmine - a quell'età. Ricordavo che invece io, ignaro di cosa addirittura fosse quel sentimento che lei provava per me, la facevo spaventare con gli insetti che catturavo. Lo facevo apposta, da stronzetto che ero, per far ridere gli amici, finché lei scappava urlando... ma poi tornava sempre, sorridendo... con le lacrime agli occhi e io, quasi costretto, le regalavo degli orsetti di zucchero colorati, che mi passava pretestuosamente mia nonna.

Col passare degli anni mi accorsi di come lei diventasse sempre più bella e che smise di chiedermi di sposarla proprio quando avrei voluto chiederglielo io. Poi con la pubertà le vacanze con la nonna finirono e le nostre strade si divisero per sempre. Ebbi l’impressione di rivederla, anni dopo, riconosciuta da mia nonna che me la fece notare, in qualche rivista di moda o in qualche programma televisivo, senza neanche sapere come rintracciarla, senza neanche ricordarne il nome, bella e inarrivabile, come tutti i sogni che non si avverano.

Quei ricordi che pensavo avere perduto per sempre, fecero perdere me, alla ricerca di un segnale elettromagnetico che mi permettesse, finalmente, di telefonare a casa.

Continua…

(Tutti i diritti sono riservati)

Maurizio Denti Pompiani

maudenpo@gmail.com

 

 

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