Uno svenevole salice pendulo, dai rami tentacolari, protegge una panchina dalla pioggia e anche dal resto del mondo.
Inseguendo le mie tristi reminiscenze finii in uno dei rami meno frequentati del parco. Con lo sguardo incollato allo schermo del mio telefono mi trovai presso una fontana rotonda, circondata da una staccionata in legno in stile recinto alpino, al cui centro, sopra un masso amorfo ricoperto di muschio, un cherubino di marmo sembrava suonare una specie di tromba da cui usciva l’acqua.
Due cigni austeri nuotavano aristocraticamente tra le ninfee e una grossa anatra, piena di colorate escrescenze carnose, mi si avvicinò perentoriamente starnazzando ad alta voce come una mondina bergamasca, reclamando un pezzo di pane che gli riempisse l’insaziabile gozzo. Mi sedetti per orientarmi su quella panchina stranamente immune dalla pioggia, in perfetta solitudine, in quel posto dall’aria così surreale. Quel silenzio così insolito e raro per qualunque città. L’atmosfera era talmente ferma nel tempo da sembrare finta, patinata, con quel castello che dominava sopra l’alta scogliera, emergendo a fatica dall’agrumeto che dava al quadro globale un’aria sospesa e magica da fiaba.
Mi appoggiai allo schienale della panchina, dimenticando per un attimo ciò che stavo facendo, vi restai immobile, rapito. Il silenzio era tale che potevo sentire il rumore del mio respiro e quello delle foglie. Ispirato dal posto mi annotai una considerazione tra le note del telefono:
È come una chiesa in cui imponenti sacerdoti arborei ci ammoniscono, che non siamo gli unici esseri viventi a questo mondo, né i più robusti, né i più longevi, probabilmente neppure indispensabili.
Una banalità assurda di cui trovai pure motivo di compiacermene.
Ogni piccolo rumore proveniente da fuori il parco, ogni colpo di clacson - seppur attutito dalla lontananza - lacerava la carne di quell'oasi silenziosa come una lama che ne compromettesse per sempre il delicatissimo equilibrio. Si sentiva il respiro del mare da lontano. Vicino a me un sontuoso cedro del Libano dalle fronde asimmetriche sembrava dovere farsi notare suo malgrado. Un cartello ai suoi piedi avvertiva che si trattava di un albero monumentale protetto dal Ministero dell'Ambiente. In effetti era magnifico nella sua rara imponenza. Altri strani alberi enormi mi circondavano.
Conifere coi tronchi complicatamente contorti con la corteccia sfilacciata le cui radici minacciose, come dita artrosiche di una vecchia fattucchiera, affioravano qua e là dalla terra per farci inciampare apposta gli sbadati. In un eccesso di concentrazione, ebbi l’impressione di vedere quelle radici insinuarsi subdolamente attorno alle mie gambe e poi nelle mie vene, per radicarmi per sempre su quella panchina con la vernice rotta dal sole come la pelle di un vendemmiatore dell’Oltrepò Pavese.
Caddi come ipnotizzato dal vortice di nomi e iniziali incisi da generazioni di improvvisati cesellatori innamorati, a memoria eterna dei loro effimeri amori sempiterni. Realizzai come non avessero lasciato un solo centimetro libero di quel complemento d’arredo urbano.
Il profumo del muschio mi ricordava serene quanto fallimentari escursioni micologiche con mio padre e quello dell'erba bagnata una promessa calcistica mai mantenuta: la mia.
Mille ricordi si rincorrevano come gatti impazziti nella mia testa.
M’intristivano, ma non riuscivo, e forse non volevo, liberarmene. Non è facile addentrarsi così nitidamente nei dettagli di certe reminiscenze, se non in circostanze ambientali e di solitudine particolarmente favorevoli come quella in cui mi trovavo e volevo sfruttarne l’occasione. Con l’età si impara a convivere col dolore a non temerlo e perfino ad accettarlo trovandolo un prezioso strumento di crescita interiore.
Perso nei miei pensieri seguii distrattamente con lo sguardo il sentiero che passava sotto i miei piedi e continuava fino l'angolo più remoto del parco, dopodiché curvava a sinistra, radendo il severo muro sbrecciato di cinta e tornava indietro seguendone il percorso perimetrale.
All’apice di quell’abside estrema del parco, un luogo particolarmente nascosto e ombroso in quanto protetto da un folto boschetto di bambù, su una panchina anteposta ad un grosso leccio ombroso e scorbutico, scorsi una figura seduta. Una ragazza. Lunghi capelli dritti neri e una frangia leggermente spettinata sulla fronte. Stava leggendo un libro con una copertina scura. Seria, composta. Lontana ma non abbastanza da non essere notata. Snella. Lunghe gambe accavallate avvolte da jeans aderenti e leggermente sgualciti, stivali morbidi neri col tacco, una camicetta eubea bianca e un giubbotto di pelle nera con fibbie e cerniere sparse ad arte. Era assorta nella lettura, non sembrava essersi accorta della mia presenza.
Giocava avvolgendo lentamente sull’indice della mano sinistra una ciocca dei suoi capelli perfettamente dritti. Ogni suo movimento sembrava attentamente studiato. Vestiva la sua gioventù in modo elegante e ciò la rendeva estremamente affascinante ai miei occhi. Ogni suo gesto era spontaneo, sicuro e aggraziato. Sembrava oltremodo avvenente anche se non riuscivo a vederla dettagliatamente e, sicuramente, non bene quanto meritasse una creatura simile. Naturalmente non me lo posi come il problema soverchio della mia vita e me ne feci piuttosto facilmente una ragione.
Ma quando lei sollevò per pochi istanti i suoi occhi assorti guardandomi senza vedermi prima di riposarli lentamente sul suo libro, la sua affascinante bellezza suscitò immediatamente la mia meravigliata attenzione e capii che non sarei riuscito a resistere alla curiosità di doverla osservare più attentamente, da vicino. Era una pulsione, la mia, che conoscevo benissimo: egoista, egemone e dittatrice, quanto si vuole, ma alla quale mi abbandonavo sempre volentieri, arrendendomici supinamente, per la sublime ebbrezza mentale, perfino fisica, con la quale mi ripagava. L’inerme, spudorato, rinnegamento di ogni mia dignità e di ogni mia forma di maturità. Un orgasmo senza la fisicità di un orgasmo.
Succube dal mio stesso edonismo, quindi, mi alzai quasi mio malgrado e mi diressi verso quella meraviglia della natura, sebbene non ci fosse stato nessun motivo per cui dovessi passare di lì, davanti a lei, tranne quello assolutamente compulsivo per cui sentivo il bisogno di farlo. Bisogno che strideva violentemente con la mia onestà intellettuale di padre e marito e con la mia innata timidezza, la quale, per quanto deterrente, quella volta stranamente non bastò a farmi recedere di un solo millimetro dal mio cammino.
Procedevo, quindi, incerto e renitente come un bambino trascinato a forza dal proprio genitore davanti al portone dell’asilo al primo giorno di scuola materna. Giunto a pochi passi da lei finsi un atteggiamento contingente che non mi era per nulla spontaneo né, tantomeno, credibile. Mi sentivo a disagio e timoroso. Decisamente fuori luogo. Mi insultai in tutti i modi per quello che stavo facendo. Calpestai inavvertitamente delle foglie secche, che fecero un rumore imbarazzante, quasi assordante, in quel silenzio assoluto e che avrebbe dovuto attirare la sua attenzione ma che, inaspettatamente, non le fece nemmeno alzare lo sguardo dal suo libro.
Tre passi...
Due passi...
Un passo da lei.
La guardai intimidito, con la coda degli occhi. Nulla.
Casuale. Indifferente. Meravigliosa e distratta come un'orchidea selvatica thailandese, continuò imperterrita nella lettura di quel libro con la copertina di pelle nera che adesso potevo notare essere senza titolo.
Percepivo chiaramente la sua vibrazione in perfetta sintonia con la natura. Quella Natura, unica artefice capace di concepire tanta bellezza.
Stentai a vincere la sua forza gravitazionale mentre la lasciavo dietro di me.
Un passo...
Due...
Tre...
E addio per sempre.
Con un indebito senso di delusione, pensai che poteva almeno degnarmi di uno sguardo e darmi così l’occasione di poterla ammirare per quel che penso ogni capolavoro meriti di essere. Ma ormai mi ero bruciato la mia occasione e non potevo certo ritornare sui miei passi, correndo magari il rischio di sembrarle un maniaco sessuale. Così procedetti rassegnato e amareggiato per la mia strada, facendo finta di niente, osservando la vegetazione attorno, come se fossi lì proprio per quello.
All’improvviso una voce mi penetrò come un coltello tra le scapole, fino all’anima:
“Scusa signore. Hai da accendere?”
“Come ha detto, scusi? ... Ce l'ha con me?”
Lei si guardò attorno forse per enfatizzare il fatto che non ci fosse anima viva attorno a lei tranne il sottoscritto.
“Hai da accendere, per favore?” ripeté, con voce bassa e gentile, mostrandomi la sigaretta che faceva ondeggiare perfettamente in equilibrio tra le esili punte delle dita.
“Da accendere? ... Eh!... No!... Mi spiace, non fumo!”
Lei sorrise dolcemente, alzò e abbassò velocemente le spalle, come se la mia risposta non la riguardasse. Poi aggiunse:
“Ah! … Non fa niente! Grazie lo stesso.” Si rimise a leggere.
Quel sorriso, ma soprattutto lo sguardo smeraldino di quella giovane ragazza mi rimasero impressi sulla retina come il lampo di una saldatrice elettrica. Non mi era mai capitato di incontrare una ragazza così bella. Ne rimasi letteralmente incantato, stordito.
Un’emozione fuori controllo mi faceva sentire agitato e confuso.
Frugai nelle tasche istintivamente, un’ultima volta, senza un vero motivo.
“Mannaggia, questi giubbotti hanno mille tasche e taschini che aumentano in proporzione alla fretta di trovarci qualcosa”, balbettai.
Il suo sorriso divertito non mi aiutò molto.
Inaspettatamente, secondo un’insondabile legge che vuole che ogni cosa che si dispera di avere si trovi sempre nell'ultima tasca che si va ad esplorare, nella tasca posteriore sinistra dei miei pantaloni trovai l'accendino verde che avevo trovato davanti all'entrata del Comune e che avevo completamente rimosso dalla memoria:
“Aspetti... signorina... incredibile... Ce l'ho! Ma pensa te, ho un accendino!”
Glielo mostrai trionfante, alzandolo come se fosse un trofeo olimpico.
Lei lo guardò. Poi guardò me, sulla difensiva, seria e perplessa di tale atteggiamento trionfalistico, cercando di interpretare quella mia strana euforia. Sembrava seriamente preoccupata e neanche più troppo sicura di accettarlo o meno.
“Probabilmente penserà che sono pazzo.”, le dissi, cercando di smentire la sua sensazione.
Mi avvicinai cautamente porgendole quell’inaspettato trofeo, mentre, con goffi tentativi, provavo ripetutamente ad accenderlo con la mano tremante. Quanto mi sentivo stupido e a disagio nel provare tanto imbarazzo di fronte a quella ragazza molto più giovane di me.
Lei accennò un sorriso di circostanza per sdrammatizzare il mio evidente imbarazzo, quindi spostò i capelli dietro l'orecchio e accostò il viso alla mia mano tesa, traballante, in un gesto che non fece che aggravare la mia situazione, in quanto notai, e non potei fare a meno di farlo, che lo splendore del suo viso oscurava totalmente quello della fiamma dell’accendino.
Lei accese la sua sigaretta con due tiri leggeri che non respirò, come me, che mi trovavo in preda a una vera e propria estasi mistica.
“Io… io non fumo. Se lo tenga pure l’accendino, se vuole”.
“Non fumi?”
“No! È uno dei pochi vizi che non mi concedo.”
Lei mi guardò con quel sorriso compassionevole che si concede a un amico che ti fa una battuta idiota.
Io mi sentii l’idiota.
“E questo allora?”, chiese, riconsegnandomi l’accendino.
“L'ho appena trovato!”
“Davvero?”
“Sembra incredibile, lo so, ma è proprio così”
“Cosa fai qui?”
“Sono qui per lavoro. Lei?”
“Tu!”
“Ok…Tu? Stai leggendo, ovviamente.”
“Cerco un orecchino.”
La presi come una battuta a sottolineare la stupidità della mia domanda.
“Beh… penso che questo sia proprio il luogo ideale per leggere. Sei del posto? Questo parco è magnifico, immagino tu lo conosca perfettamente.”
“Diciamo che lo conosco come se fosse il mio, ma, evidentemente non abbastanza, dal momento che non ho ancora ritrovato il mio orecchino.”
“Allora lo stai cercando veramente… pensavo fosse una battuta”.
“No. Purtroppo non lo era, parlavo seriamente.”
“E lo cerchi in quel libro? Da quando ti osservo sei sempre stata qui, su questa panchina a leggere.”
“In questo libro non cerco l’orecchino, trovo tutto il resto. Per quale motivo mi osservavi?”
“Ho detto: osservo, lo sto facendo ancora.”
“Osservare è un atto piuttosto impegnativo. Non valgo tutta ‘sta fatica. C’è molto da osservare qui. Penso tu possa trarne molta più soddisfazione osservando altrove, già negli immediati paraggi”.
“Permettimi di obiettarlo. Penso esista un’imperscrutabile forza naturale a dirigere l’attenzione delle persone. Un po’ come una gravità che agisce logicamente.”
Lei alzò su di me i suoi grandi occhi da gatta e accennò un sorriso malizioso. Al che mi sentii in dovere di precisare:
“Non mi fraintendere, la mia non era un’allusione a sfondo sessuale.”
“Anche se lo fosse stata, non ci vedrei nulla di male.”
I nostri occhi s’incollarono gli uni agli altri per un paio d’interminabili secondi.
“Hai detto di essere qui per lavoro: di cosa ti occupi esattamente?”
“Vendo pannelli solari… ricavano energia dal sole.”
“Come gli alberi!”
“Già… proprio come loro… sì, esattamente così. E tu? Se posso…”
Lei si mise a ridere
“Sono una chrono-surfer, oggi si definirebbe così…”
“No… dai… modella… studentessa… di che ti occupi?”
“Curo gli alberi.”
“Ah… ok. Botanica, quindi. “
“Una specie…”
“E modella…”
“Assolutamente no. Mai fatto da modella per nessuno.”
“Come mai? Non dirmi che nessuno ti ha mai proposto di fotografarti.”
“Probabilmente perché la luce che impressiona pellicole e sensori non è la stessa che illumina me. Io e phŌtòs viaggiamo insieme, ma su frequenze diverse.”
“Ma io ti vedo però.”
“Non tutto ciò che fa rumore è udibile. Non tutto ciò che emette luce è visibile. Siamo così limitati quando ci ripariamo dentro i nostri sensi. Solo alcuni eletti hanno il potere di trascenderli.”
“Fammi capire. Con questo, vorresti dire che tu, saresti in grado di decidere se risultare visibile o meno. È così?”
“Un po' come tutti, se vogliamo…”
“No… lasciamo perdere… tu, nello specifico, stai dicendo qualcosa di diverso…”
“Ah… io so sparire molto bene, quando voglio.”
Fu così bello e dolce ridere insieme.
“Vorrei avere anch’io quel dono, specialmente con mia moglie e certi clienti. A proposito dell’orecchino che cerchi: com’è fatto? Hai una foto? Nel caso lo trovassi potrei riconoscerlo, almeno.”
“Sei fissato con le foto tu, o sbaglio? Ecco: è il compagno di questo.”
Spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi mostrò quello che indossava. Era un pezzo molto elaborato, ricco di pietre colorate, di cui la principale, verde, aveva lo stesso colore dei suoi magnifici occhi.
“Nel caso lo trovassi, a chi devo rivolgermi? Hai un numero di telefono? Una mail… non so… dimmi tu.”
“Mi troverai qui. Ci vengo spesso, soprattutto quando piove.”
Il modo in cui abbassò gli occhi arrossendo. Quel sorriso di ragazza, non ancora donna e non più bambina, risvegliarono in me una profonda nostalgia di quei sentimenti che solo l’amore giovane e puro riesce a infondere. Se mi innamorai di lei o dell’idea dell’amore, non lo so. Sicuramente mi innamorai di un sogno universale che mi si stava incredibilmente materializzando davanti, come un fulmine a ciel sereno, una vincita alla lotteria, la donna dei sogni.
“Posso chiederti cosa stai leggendo?”, chiesi.
“Un libro che non si legge”
“Strano, di solito, i libri, sono fatti apposta per essere letti. Questo invece…”
“Di solito, i libri sono fatti per essere non solo letti, ma anche interpretati. Nello specifico, questo, non essendo stato scritto…”
“Va solo interpretato.”
La ragazza annuì al mio sillogismo.
“Ok… ma come fai ad interpretare una cosa che non è stata scritta?”
“Non hai appena interpretato il mio gesto annuente, forse?”
“Beh…”
“E quante cose ci siamo detti con gli occhi, fin ora? Quante cose percepiamo ad ogni singolo istante: odori, profumi, colori, bellezza, armonia, musica, caldo, freddo e così via. Quante? Tu riusciresti a scriverle queste cose? Il nostro cervello elabora milioni di informazioni al secondo, provenienti dall’ambiente che ci circonda e tu ti fermi ad interpretare solamente ciò che riesci a leggere? Ma davvero?”
“Va bene, ci sta! Resta il fatto che in quel libro non c’è scritto nulla.”
“Probabilmente perché contiene tutte le storie. Compresa la tua. Tieni questo, in cambio dell'accendino!”, mi porse il suo segnalibro dopo avermelo firmato.
“Bello!... proprio carino... grazie!”
“Regalo per regalo, così siamo pari”.
“Non è necessario che te ne privi. Guarda che non l'ho fatto per interesse!”, feci per restituirglielo.
“Ti prego, accettalo... mi fa stare meglio! Ti servirà.”
Mi suonò il telefono:
“Toh! C’è campo adesso!”. Sul display il nome di Paola.
Feci cenno alla ragazza di scusarmi, mi allontanai qualche metro per cortesia.
“Pronto.”
“Sono io. Ciao!”
“Ah! Ciao Paola... Stavo giusto per chiamarti!”
La guardai, impotente, mentre si alzava e si accinse ad andarsene salutando con un breve gesto della mano. Le feci segno di attendere, ma lei, con un lieve movimento della testa e un mezzo sorriso, facendomi cenno all’orologio, se ne andò ugualmente.
“Dove eri finito? Ti davo per disperso, non ti sei più fatto sentire...”.
“Non c'è campo. Ho fatto fatica...”.
“Hai sbrigato tutto quello che dovevi fare?”
“Macché, ti stavo chiamando apposta. Ho trovato il Municipio chiuso, infatti volevo dirti che non rientro per domani sera. Credo che mi ci vorrà ancora almeno un giorno!”
“Come hai trovato chiuso... se è dalle tre del pomeriggio che sei lì. Hai detto: vado via prima così arrivo presto, sbrigo alla svelta tutte le menate burocratiche e torno per il week-end. Io ho già prenotato!”, cominciò a sbraitare.
“A parte che il treno ha ritardato per cui sono arrivato alle quattro e mezza - mentii – non è colpa mia se oggi hanno chiuso in anticipo per assemblea. Comunque, se ce la faccio a fare le carte per domani mattina e, a questo punto, convinco il cliente a ricevermi nel pomeriggio, dovrei riuscire a prendere il treno di domani sera. Però non ti assicuro niente...”
“Sì!... sì!... Come al solito hai cazzeggiato in giro e sei arrivato in ritardo, non è che adesso mi tocca disdire tutto?”
“No, macché cazzeggiato. Ti ho detto che...”
“Vabbè, vabbè, ma pensi di farcela per domani sera o no?”
“Non, so... dovrei... dipende anche dal cliente. Come faccio a dirtelo con sicurezza?”
“E io a quelli dell’albergo cosa gli dico? Non so se veniamo, dipende?”
“Paola, cerca di capire, non è colpa mia se…”
Muto - Ha riattaccato. oppure è caduta la linea. No… ha proprio riattaccato. Che carattere di merda! Possibile che s’incazzi sempre per ogni cosa? Intanto quello splendore se n’è andata e non so neanche come si chiama.