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Sport | 12 settembre 2023, 15:40

Us Open: in lode a Novak Djokovic - di Teo Parini

Us Open: in lode a Novak Djokovic - di Teo Parini

Per chi se lo ricorda, il Milan dei cosiddetti invincibili, quello magistralmente diretto da Fabio Capello, aveva due peculiarità. Non perdeva mai, appunto, e, calcisticamente parlando, suscitava le stesse emozioni di una telenovela argentina di quelle in voga all’epoca, soporifero. Lo schema, del resto, era semplice: difesa granitica, una sortita in attacco, palla sporca a Massaro e gol di rapina della striminzita vittoria. L’uno a zero quale cifra stilistica, la supremazia del quanto sul come. La conferma non scritta del vecchio adagio per il quale, se gli attacchi fanno vendere i biglietti, sono le difese che consentono di sollevare i trofei.

Parlando di tennis, qualcosa di simile è ravvisabile nella carriera del giocatore più vincente di ogni epoca che, se anche a molti romantici della disciplina non piacerà nemmeno al raggiungimento del centesimo torneo del Grande Slam, incarna in maniera inequivocabile il prototipo di una modernità tennistica che, ammesso succeda, sarà demodé chissà tra quanti anni: Novak Djokovic. Giocatore per il quale viene spontaneo scomodare, adattandolo, il noto pensiero espresso a suo tempo da Gary Lineker a proposito della forza dei tedeschi nel gioco del calcio. Il bomber di Sua Maestà, infatti, definì il soccer, a valle dell’ennesima sconfitta pesante dell’Inghilterra, come uno sport semplice, nel quale ventidue giocatori inseguono il pallone ma alla fine trionfa sempre la Germania. Ecco, cambiando le parole calcio con tennis, ventidue con due e Germania con Djokovic, l’assioma è servito. Passano le stagioni, si sommano le primavere sulle spalle, cambiano gli avversari in un mondo che intorno cambia anch’esso, ma gira che rigira il più forte è sempre lui. Come la scorsa domenica quando a New York, facendo secco Medvedev in finale, ha messo in cascina il Major numero ventiquattro, pareggiando lo score record di Margaret Court, al culmine di un’annata nella quale l’unica macchia, se così può essere definita, è rappresentata dalla sconfitta, peraltro in finale e sul filo di lana, a Wimbledon. Dove Alcaraz, per una volta deciso a essere il vero Alcaraz e non la copia distratta, è stato capace di sbarrargli la strada. Per il resto, mutuando un’espressione cara al basket, nel 2023 solo rete per lui.

Djokovic è il giocatore che più di ogni altro rigetta il concetto di sconfitta, al punto da cambiare pelle quando, in bilico sul cornicione, sembra essere destinato a morte certa. Il Daitarn 3, che dopo aver incassato un sacco di botte si gioca la carta dell’attacco solare e ribalta il tavolo. Sarà che un ragazzino cresciuto sotto le bombe della NATO che hanno fatto macerie della Serbia difficilmente in età adulta potrà conoscere eguale paura, men che meno su un campo da tennis. Così, quando avversari anche decisamente più attrezzati di lui cominciano a percepire sulla pelle i sintomi della tensione da palla che scotta, Nole, con gli occhi fuori dalle orbite che tradiscono l’appartenenza a un’altra dimensione, entra nella sua modalità robotica. Non sbaglia più niente e vince. La differenza ontologica che passa tra chi è divorato dalla paura e chi, invece, la paura se la divora.

Non è certo un caso se, tanto per dirne una, nel corso di questa stagione Djokovic ha vinto la bellezza di trentuno tie-break – per i meno avvezzi alle regole, trattasi dell’epilogo di un set giocato spalla a spalla – su trentatré disputati. Oppure se nell’arco di una carriera infinita abbia recuperato innumerevoli volte uno svantaggio di due set e ripreso per i capelli partite nelle quali si è trovato a un solo quindici dalla sconfitta. Come nella celebre finale di Wimbledon del 2019 estirpata dalle mani paradisiache e tremolanti di Federer, istantanea esemplificativa del concetto espresso poc’anzi circa la gestione delle emozioni nel contesto di uno sport che più diabolico non potrebbe essere. Puoi essere forte quanto vuoi, possedere la mano più educata di ogni epoca e incassare il tifo incondizionato del mondo intero ma, novantanove volte su cento, contro il serbo ci si lascia le penne. L’inesorabilità di un fenomeno.
Qualcuno, bontà sua, riesce anche ad appassionarsi vedendolo giocare – noi no – tuttavia è innegabile che nell’ambito dell’applicazione del principio di Bonipertiana memoria per il quale vincere è comunque l’unica cosa che conta, Djokovic rappresenta la Bibbia tradotta in tutte le lingue del mondo. Insomma, se vuoi essere un dominatore devi somigliare a lui. Si tratta di fame, fame insaziabile. Quella di chi non è nato nella bambagia e che, intraprendendo la carriera del tennista, ha costretto suo padre a rivolgersi agli usurai per pagare gli allenamenti e a tentare di rimediare un passaporto straniero che gli consentisse di viaggiare, oltre qualche privilegio precluso ai serbi. Quella fame che, unita alla genetica che fa degli ex jugoslavi un popolo di sportivi spesso ineguagliabili, consente a Djokovic, ancora a trentasei anni, di affrontare ogni incontro come se in palio non ci fosse un trofeo ma la sopravvivenza sua e della sua gente, il patriottismo tennistico.

Una partita delle sue è sempre una doppia congiura: per chi la guarda in tutta la sua snervante monotonia e per chi, al di là della rete, la subisce. Lui, di rimando, ci gode un mondo, come lo squalo che, percepito l’odore del sangue, sa benissimo come andrà a finire per il malcapitato avversario. È la sublimazione rivista e corretta del corri-e-tira teorizzato dal guru Nick Bollettieri all’inizio degli anni Novanta ed elevato alla potenza enne, un fuoco di sbarramento in grado di fermare l’esercito più numeroso e arrembante al mondo, la capacità camaleontica di adattare strada facendo gli schemi alle debolezze di chi gli contende l’incontro. Laureato all’università della concretezza, manco a dirlo senza concessioni a ciò che non è strettamente funzionale allo scopo, il leitmotiv è sempre lo stesso. Più la gente lo avversa, schierandosi immancabilmente con il suo avversario, e più il livello del suo gioco si eleva, minuto dopo minuto, su traiettorie non replicabili. Djokovic è gomma e pietra insieme, l’elasticità muscolare del ballerino classico che si somma alla caparbietà mentale dura più del granito. Se lo deformi lui riassume la configurazione iniziale e, in tutta risposta, colpisce duro come la pietra. Winning ugly, vincere senza fronzoli, per dirla alla Brad Gilbert.

In un periodo storico che per il tennis a definire di magra gli si fa un complimento, e nel quale a parte Alcaraz e in misura minore Medvedev il livello dei competitor è francamente modesto, questo Djokovic di fine carriera, significativamente lontano dal suo acme raggiunto ormai una dozzina di anni fa quando gli avversari si chiamavano Nadal, Federer e Murray, rappresenta ancora il metro di giudizio, il termine di paragone per chi nutre ambizioni di primato. Qualcuno, forse il compianto Roberto Lombardi, sosteneva che una partita di tennis fosse un piccolo ciclo della vita. Nasci, impari, metti in pratica, cerchi di raccogliere i frutti del lavoro. Novak Djokovic, tirando le somme, è tennista formidabile proprio perché, di vite, in un solo match può spenderne sette come i gatti e cade sempre in piedi. Con la coppa in mano.

di Teo Parini

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