Il punto di non ritorno evocato dall'assessore Gallera è contenuto in una lettera pubblicata questa mattina dall'edizione online del quotidiano L'Eco di Bergamo, in prima linea con i cittadini di una provincia che subisce e lotta quasi in silenzio, senza alzare la voce. Questa lettera di non ritorno non ha bisogno di alzare la voce perché urla, scava, segna e resta in eterno quando il figlio di questo papà morto per Coronavirus racconta di non essere riuscito a dirgli addio se non grazie a «quelle infermiere che pur nella difficoltà, nella confusione e nella stanchezza hanno trovato due minuti per appoggiare la cornetta, per portare il nostro saluto e il nostro affetto a papà e poi tornare a dirci che aveva capito».
Questa lettera scavalca, azzera e rende inutile ogni parola fuori posto di chiunque perché mostra i segni e le ferite della realtà, e di chi in quella realtà rischia tutto sull'altare dell'umanità e del coraggio mostrato anche a questo figlio dagli operatori del 118 «che hanno portato giù dalle scale mio padre con estrema fatica e con tutta l’attenzione possibile, dal personale sanitario, medici e infermieri, dell’ospedale di Ponte San Pietro che hanno assistito il nostro papà al meglio possibile e che in questi giorni si trovano costretti a dover scegliere con dolore e in lacrime chi tentare di salvare e chi no». E poi ancora dal dottore «che ha girato quasi tutto l’ospedale per capire in che reparto fosse stato messo il nostro papà. Un abbraccio grande alla dottoressa che l’ha seguito e che ha pianto con noi al telefono perché il nostro papà gli ricordava il suo. Un abbraccio grandissimo a tutte quelle persone che come noi hanno perso un caro che non era sacrificabile».
Questa lettera è un punto, e basta, da mettere davanti a tutto e tutti perché mostra cosa può succedere all'improvviso a un figlio che aveva un papà che «portava i suoi nipoti ovunque. Il lunedì Cecy a lezione di canto, il martedì Gio a lezione di batteria, il mercoledì e il venerdì Leo e Gio all’allenamento di calcio. Tutti i giorni o portava o prendeva a scuola Leo a seconda delle esigenze. E nel frattempo, dopo essere tornato indietro, aiutava mia mamma, sua moglie Antonella, a tenere la piccola Maty durante la mattina. Era un punto di riferimento per mia madre e l’aiutava a rassettarmi l’appartamento il venerdì pomeriggio perché io ero troppo impegnato al lavoro in settimana e così potevano darmi una mano».
In quel papà rivediamo i nostri papà e le nostre mamme, nonni e nonne che, come lui, sanno «aggiustare di tutto in casa», «non dicono mai no», «non vogliono mai niente» anche se solo loro sanno «far ridere i nipoti» magari muovendo «le orecchie in quel modo che solo lui sapeva fare».
Perché la lettera di questo figlio al suo papà resti un punto di partenza, oltre che di non ritorno, e perché quel papà sia anche il nostro papà da ricordare in ogni nostro gesto e pensiero da oggi alla fine della battaglia con il Coronavirus, ricordiamoci che «si è ammalato dopo 10 anni senza una febbre, senza un acciacco, senza una patologia salvo un ginocchio un po’ malandato».
Si è ammalato, come scrive suo figlio nel punto più toccante e indimenticabile, nel momento in cui «per poter essere portato in ospedale devi essere per forza già grave. Nel momento per cui se sei grave hai bisogno di una terapia intensiva che non è disponibile. Nel momento in cui se è disponibile una terapia intensiva viene data priorità ad una persona meno sacrificabile, più giovane. Beh, papà. Tu non eri sacrificabile. Tu eri una risorsa per ben tre famiglie».
In Breve
martedì 13 maggio
lunedì 12 maggio