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Attualità | 15 aprile 2020, 12:28

Dal fondatore di Eataly Farinettti una proposta che fa discutere: «Il 2% dei nostri risparmi per salvare il sistema Italia»

L’imprenditore boccia la definizione di "prelievo forzoso", ma richiama l’esigenza di risposte rapide dalla politica. «Senza una visione anche le aziende più sane rischiano di non farcela»

L'imprenditore albese Oscar Farinetti, 66 anni, fondatore di Eataly

L'imprenditore albese Oscar Farinetti, 66 anni, fondatore di Eataly

Incita alla resistenza alternando l’inglese al dialetto – tra un "never, ever give up!" e un piemontesissimo "muluma nen!", non molliamo – e intanto se la prende con la categoria dei titolisti  "le persone più ciniche del mondo" – l’imprenditore piemontese di Alba Oscar Farinetti, mentre dalla sua casa di Novello, nelle Langhe, risponde alle nostre domande sulla sua personale visione dell’emergenza che sta mettendo in ginocchio l’Italia e soprattutto sulle scelte che il Paese può fare per uscirne.

A non piacergli, per nulla, è quella definizione, "prelievo forzoso", con cui qualche testata ha fatto ricorso per descrivere la proposta che il fondatore di Eataly ha lanciato per suggerire al Paese una via con la quale guardare oltre l’emergenza. Un’idea volendo semplice, che subito ha rievocato i fantasmi della vituperata patrimoniale di Giuliano Amato del 1992. Dal punto di vista dell'ex patron di Unieuro, invece, una banale applicazione di un modello, quello del buon padre di famiglia, oggi più che mai necessario per vedere la luce in fondo al tunnel.

«Partiamo da una premessa semplice. Per salvare il sistema Italia stiamo ragionando su risorse per 200 più 200 miliardi, in arrivo da chissà dove. Ma non sono quattrini, sono garanzie. Altrove un sistema simile può funzionare: in Svizzera soldi alle aziende ne sono già arrivati, mentre le nostre società Usa hanno già ricevuto dal Governo moduli da presentare accompagnati con una semplice autocertificazione.
In Italia invece è difficile che quei soldi arrivino in tempi accettabili, le banche faranno le loro istruttorie, la burocrazia si metterà di mezzo. Questo mentre in Europa non c’è accordo sulla proposta di istituire un debito comune, cosa che possiamo anche capire, per alcuni versi, visto che un commesso italiano del parlamento europeo guadagna più di un deputato olandese».

Da qui la sua proposta.
«Ho risposto con semplicità e onestà morale a un interrogativo: se questi soldi non arriveranno rapidamente, cosa faranno le imprese e le famiglie italiane? Quando una famiglia si trova in una situazione di bisogno va a prendere i risparmi che ha in banca e li usa.
Noi italiani siamo un popolo di risparmiatori, abbiamo 4.117 miliardi di liquidità privata, divisi tra conti correnti bancari, bond, titoli del tesoro, investimenti azionari. Se noi attingessimo al 2 per cento di queste risorse arriveremmo alla cifra di 82 miliardi: una somma importante, con la quale tamponare la situazione e pensare di ripartire. Peraltro è un modo sano perché proporzionale: una persona molto ricca, che abbia risorse per 500mila euro, ne mette 10mila. Chi ne avesse 5mila ne metterebbe 100».

Eppure il suo invito ha suscitato molte polemiche.
«Sì, torniamo alla categoria del titolista, la più cinica del mondo e a quell’espressione, "prelievo forzoso", utilizzata per descrivere questa semplice proposta. Le parole tabù sono tipiche dei momenti bui, sono parole che non puoi pronunciare, perché immediatamente vengono giocate politicamente, rinfacciate da uno all’altro, specialmente nel nostro Paese.
Pensavo che di fronte a una proposta sincera, ragionevole, etica, noi italiani ci potessimo ragionare, visto che quando c’è bisogno in realtà siamo pronti ad aiutarci gli uni con gli altri. E in questo caso a fare sì, tutti insieme, che il Paese possa reggere al momento e vincere questa sfida. Invece è partito un pallone pazzesco, la solita polemica. Io la ritiro, la proposta, va benissimo, ragioniamo tutti in base al nostro interesse personale e non al bene comune.
Ad oggi però stiamo vivendo di speranze, non abbiamo date, i soldi della cassa integrazione non sono arrivati, li stanno anticipando le aziende, è tutto un forse. Ma se poi non ci fidiamo di noi stessi…. Solo purtroppo è così, e io sono sinceramente preoccupato. Qui nessuno prende le decisioni che bisogna prendere, le soluzioni non piacciono, viviamo in un Paese che predilige le lamentele, dove si va sempre a cercare quello che non va. Conviene ritirarsi allora, ognun per sé…».

Altrove va diversamente?
«Assolutamente. Con Eataly siamo presenti in 18 Paesi, vediamo reazioni diverse. Anche in Germania delle risposte ci sono già state. Noi galleggiamo nella solita palude.
Le idee più semplici finiscono infilate in un sistema che le affoga, un mondo di burocrazia, grigia, soffocante, polverosa. Questo è un peccato, perché siamo il Paese più bello del mondo. E siamo anche ricchi, grazie alla vita morigerata dei nostri padri e nonni.
Siamo bella gente che vive nel posto più bello del mondo. Poi però c’è la palude della discussione politica, della perenne campagna elettorale. La politica lavora per il consenso e non per dare risposte, non per risolvere i problemi. Siamo diventati polverosi persino noi. Poi leggiamo solo i titoli, sui giornali, "prelievo forzoso"…».

Qual è la situazione per il suo gruppo?
«Siamo presenti in mezzo mondo e non abbiamo un Paese che non sia fermo. Il nostro business è per il 60% legato alla ristorazione, che ovviamente è bloccata ovunque. Stiamo cercando di darci da fare con le vendite on line e le consegne a domicilio, sia come mercato che come ristorazione.
Devo fare i complimenti ai nostri ragazzi, che stanno facendo un lavoro straordinario, ma in Italia siamo alla metà del fatturato dell’anno scorso e negli Stati Uniti è ancora peggio. Eataly è molto forte su piazze come New York, Los Angeles e Las Vegas, dove in questo momento siamo al picco dell’emergenza, è tutto fermo, facciamo anche l’80% in meno. Lì la situazione è drammatica.
Le persone non hanno il nostro welfare. A chi non sta lavorando abbiamo deciso di riconoscere comunque una paga di 100 dollari a settimana, ma solo negli Usa abbiamo 4mila dei nostri 9mila collaboratori complessivi. Servono milioni, ovviamente».

Quali provvedimenti state prendendo?
«Fortunatamente abbiamo fieno in cascina, soci capienti. Per cui abbiamo appena varato un aumento di capitale da 20 milioni, mentre gli utili 2019 resteranno in azienda, come peraltro siamo abituati a fare, impegnati come siamo in un processo di crescita.
Ci siamo dati da subito due priorità: pagare i dipendenti e pagare i fornitori. Questo perché quando tutto questo finirà noi ci dovremo essere, pronti a ripartire. Ma mi metto nei panni di un piccolo ristoratore italiano, un imprenditore che magari ha fatto degli investimenti e che sta attingendo agli ultimi risparmi per non fare mancare un reddito ai propri collaboratori.
La situazione è drammatica, ma non bisogna mollare. "Never ever give up", "muluma nen". Per questo penso che l’Italia dovrebbe fare altrettanto».

Serve una risposta dalla politica.
«Certo, anche perché, se non arrivano ricette, dalla paura si passa al panico e alla disobbedienza civile. Non ho nulla da dire contro questo Governo, che si è ritrovato in una situazione mostruosa. Ma ho timore che siamo i primi a essere entrati nel dramma e saremo gli ultimi a uscirne.
Manca una visione. Come rilanciamo questo Paese? Cosa facciamo per l’export, la scuola, la cultura? Ci vogliono progetti. Ma soprattutto bisogna stare uniti, capire che l’emergenza ci tocca tutti. Abbiamo un nemico comune e bisogna viaggiare insieme, eliminare le polemiche, se c’è un appello che mi sento di rivolgere alla politica è questo».

Unità e risposte.
«Esatto. Viaggiare uniti. E intanto mettere in sicurezza il sistema delle imprese, garantirgli liquidità, nel più breve tempo possibile, studiare la riapertura fidandosi degli imprenditori, che tengono ai loro collaboratori e sono in grado di compiere tutti i passi necessari per farli lavorare in sicurezza. Questo deve fare la politica, che intanto si deve affidare agli scienziati.
Lavorare su un vaccino perché senza quello non ripartirà il turismo. Siamo il Paese più bello del mondo e abbiamo tutto un sistema fermo. In questi giorni, mi è capitato di scendere a Barolo, non vederlo brulicare di turisti fa impressione. In questo angolo di Piemonte poi siamo fortunati, abbiamo aziende solide, sane, ma anche l’azienda più sana non può reggere a lungo in queste condizioni».

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