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Lifestyle | 12 marzo 2023, 11:06

"Diafano Opaco", il sesto capitolo del romanzo online di Maurizio Denti Pompiani

Ph. Maurizio Denti Pompiani ©

Ph. Maurizio Denti Pompiani ©

Puoi vivere tranquillo, nell’oscurità, per anni. Poi, qualcuno, illumina la tua stanza per un solo istante e tu non sarai mai più lo stesso per il resto della tua vita.

Scartai a priori il Non-bar senza la gazzetta, anche se era quello più vicino, proseguii oltre, scesi una piccola rampa di scale, attraversai una piazzetta nascosta, un’altra rampa di scale, molto più lunga, e mi trovai in un budello parallelo al lungomare inibito al traffico, dove m’infilai in un bar-gelateria appena rinnovata, dalle finestre della quale si vedeva una piccola gioielleria, piuttosto anonima, incastrata tra un panificio profumato e una pescheria puzzolente. Ordinai un caffè e chiesi per favore le chiavi del bagno. Nel tragitto attraversai lo stretto passaggio tra il bancone e i tavolini urtando una vecchietta con gli occhi imbiancati dalla cataratta, che riconobbi dal cane più largo che lungo.

“Mi scusi signora, non l'ho vista!”

“Allora, giovanotto, come va col suo fantasma? L'ha trovato?”

“Quale fan... ah… la ragazza del parco dice? No, purtroppo no.”

“Ho sentito quello che le diceva ieri la signora Ludovica, sa, la barista...”

“Ah, ok... C'era anche lei, immagino... Non l'ho vista, o forse non c'ho fatto caso, sì, adesso che ci penso: l'ho riconosciuta dal cane.”

“Già, oramai alla mia età tutti mi riconoscono solo dal cane. Comunque, rallacciandomi al discorso di ieri, la signora marchesa non era solo appassionata di piante. Le piacevano anche gli animali, soprattutto i cani. Amava gli uccelli e forse proprio per questo non sopportava troppo i gatti. Non che li odiasse, s'intende, è che... non li amava molto ecco. E poi - avvicinandosi a me sussurrò - gli piacevano molto anche gli uomini.” Rise.

“Ma davvero? – Le diedi corda - lei la conosceva?”

“Uhm! - piegò la testa di lato come a non confermare né a smentire la cosa - Si circondava sempre di bei giardinieri giovani. Diceva che passava i giorni a cercare il suo orecchino, ma so io cosa facesse esattamente. Per questo era sempre in giardino”, fece un cenno allusivo.

“Orecchino? Quale orecchino?”

“Ma quale orecchino… Ha capito? Lei…”

“Sì, ho capito, ma... quale orecchino cercava?”

“Ma sono tutte balle quelle dell’orecchino, ha capito? Lei cercava…”

“No! Davvero… la prego, mi dica di quell’orecchino, per favore.”

“Ma sì. Era una tipa strana... credeva alle magie... diceva di guarire le piante. Matta! Completamente andata. Adesso mi scusi, Lapas mi tira il guinzaglio, mi sa che deve fare qualcosa.”

“Prego, prego...”, la salutai e mi diressi urgentemente in bagno.

Un’altra curiosa analogia si andava sommando alle troppe altre. Quella meravigliosa ragazza che mi appare in un giorno di pioggia, dice di frequentarlo proprio in quei giorni, dice di guarire le piante, mi parla di un orecchino scomparso e poi scompare. La emme di Matilde sul suo segnalibro. Matilde come la mia piccola amica suicida su quella magnolia. Tutte semplici coincidenze, ovviamente, per un agnostico e miscredente come me, figuriamoci se non è così. Però, dentro di me, restava da stabilire cosa esattamente fossero e quale rilevanza avessero, le coincidenze, sulla nostra vita. Quale messaggio, se ce ne fosse stato uno, avrebbero voluto portare nella vita di ognuno di noi. A me risultava che le coincidenze potessero essere una, due al massimo, dopodiché potevano essere considerate ancora tali? Come spesso mi capita, quando mi sforzo in bagno, mi venne un’idea. L’espediente con il quale, forse, avrei potuto rintracciare la splendida e misteriosa proprietaria dell’orecchino.

Uscii dal bagno e dal bar e mi diressi verso quella gioielleria.

C'era scritto suonare. Suonai.

Il negozio era piccolo e angusto come tutti i negozi dei paesi di mare liguri che rubano spazio alla montagna. Non particolarmente fornito. Dietro al banco, senza vetri antirapina, un tizio elegante mi salutò con un sorriso che ricambiai con aria incensurata. Ci mise un po’ a squadrarmi e, quando decise che non ero un delinquente, mi aprì.

“Buongiorno!”, mi accolse con la melensa cantilena riservata ai clienti occasionali.

“Buongiorno. Vorrei sottoporle questo”, tirai fuori la carta di caramella accartocciata, “che non è questo”, quindi tirai fuori l'orecchino, “ma questo!”

Buttai la carta nel portaombrelli centrando anche il canestro.

Il gioielliere guardò il portaombrelli che non era un cestino, poi guardò severamente me e poi, finalmente, guardò l'orecchino:

“È rotto?”

“No! Non penso! Vorrei solo sapere se ne conosce la proprietaria”

Fece un sorriso ironico:

“La proprietaria? Spero di conoscerla meno di quanto la conosce lei - disse in tono sarcastico, io non risi, lui si ricompose –, scusi ma come faccio a saperlo?”

“Pensavo che, essendo un paese piccolo, ed essendo un oggetto particolare, lei ricordasse magari di averlo venduto a qualcuno!”

“Lei è un poliziotto?”

“No, non lo sono.”

“No, io non posso averlo venduto perché non ho e non ho mai avuto in casa, oggetti del genere …”, ribatté con un tono asciutto e la cortese arroganza solitamente riservata ai rompiballe.

“Ci sono altri orefici qui in paese cui poter chiedere?”

Fece un sospiro, scocciato con l'espressione di una quarantenne a cui chiedi l'età:

“Provi agli oggetti smarriti. In Comune! - riprese in mano l'oggetto dorato e lo osservò con una certa superficialità - lì potrebbero...”

Prese un monocolo a doppia lente e lo analizzò attentamente muovendolo con cura tra le dita:

“Lavorazione superba!”, gli scappò ad alta voce. Se ne pentì subito, ma ormai era troppo tardi.

“È d'oro?”, feci domanda infantile.

“Dovrei saggiarlo con la pietra da saggio.”

“Qualcosa di più sbrigativo? Mi fido della sua esperienza!”

Prese del cotone lo imbevve col contenuto di un flacone e lo strofinò sull'orecchino.

Guardò il batuffolo:

“Sì... dovrebbe essere oro!”, rispose con una certa sufficienza, come se fosse un dettaglio da niente.

La sua attenzione infatti era fissa sulle pietre. Cominciò ad esprimersi in modo professionale con tecnicismi tipo:

“Taglio vecchio, più che uno smeraldo direi che... dal forte pleocroismo, sembrerebbe Tormalina verde, anche perché si presta a questo tipo tagli estrosi. Onice, brillanti... però il tipo di taglio è strano. Sembra un Carrè Teps ma anomalo. Non si usano più adesso tagli simili. Sembrerebbe antico, ripeto, anche perché manca il marchio vede? Una volta non li marchiavano i gioielli d'oro. La legge che obbliga a farlo è del 1968. Oggi dovrebbe passare il mio fornitore... lui è abbastanza esperto in queste cose. Se vuole, gli faccio dare un'occhiata per avere una stima più precisa!”

“Se mi dice a chi potrei rivolgermi, magari qualche suo collega, eviterei di recarle troppo disturbo!”

Lui continuò senza ascoltarmi:

“Magari può essere appartenuto a una turista. È vero che il paese è piccolo ma lo sa quanti turisti passano di qui all'anno?”

“Immagino molti, ma non è una turista, glielo posso assicurare”

“La conosce, questa persona, allora.”

“È un po’ difficile da spiegare: gliel’ho visto addosso e successivamente l’ho trovato nel posto in cui era seduta. Ma non so chi sia questa ragazza e, da uomo a uomo, mi piacerebbe molto saperlo.”

“Capisco. Guardi, in città di gioiellieri ce ne sono tre: uno ha chiuso i battenti da qualche mese perché ha fatto un ictus e non so neanche se riaprirà, l'altro è in ferie in questa stagione e comunque ha aperto da poco e tratta solamente roba per giovani, per cui escluderei a priori che possa aver venduto qualcosa del genere. Il mio fornitore serve tutte le oreficerie della zona e se ne intende di pietre. Si può dire che sia praticamente un gemmologo esperto. Se non può aiutarla lui, temo che, nell'immediato, non troverà nessun altro, qui attorno, in grado di farlo! Forse a Genova, ma non avrei indirizzi da darle.”

Non simpatico ma cortese e il suo ragionamento non faceva una piega.

“La pago per il disturbo, naturalmente!”

“Non ce n’è bisogno, semmai chiederà la parcella al gemmologo, nel caso.”

Gli passai il mio biglietto da visita.

“Ah! Si occupa di fotovoltaico?”

“Già, è il mio lavoro.”

“È un discorso interessante!”

Lo dicono tutti prima di conoscerne il costo, pensai.

“Adesso ha il mio biglietto da visita. Quando vuole possiamo approfondire!”, dissi per puro formalismo e anche per ricambiare il favore che mi stava facendo.

“Non so, ci sto pensando su. Ma conviene?”

“Sono qui per installare un impianto da due mega-watt... per cui... faccia le sue considerazioni.”

“Magari. Un giorno o l'altro! ...”.

“Se un giorno dovesse decidere... A più tardi allora!”

“A più tardi. Ah! Vuole che le faccia una ricevuta per il ricevimento di questo gioiello?”

“Non è necessario. Ci vediamo dopo.”

Tanta disinteressata affabilità mi insospettiva.

Avevo come la sensazione di avere trovato qualcosa di grande valore.

Fuori dalla gioielleria, decisi di soddisfare la mia voglia di cioccolata e leggenda. Lo zucchero che cadeva della mia bustina faticava a perforare lo spesso strato di panna montata che galleggiava sopra la mia cioccolata calda. Lo aiutai ad affondare con il cucchiaino.

Nel non-bar senza la Gazzetta un tipo stava sperperando decine di monete alla rumorosissima slot machine elettronica, imprecando ad alta voce alla sfortuna senza mai sospettare che la vera sfortuna che lo perseguitava era quella di essere venuto al mondo in quel modo.

Sorseggiando un the, la solita vecchia signora divideva biscotti e cataratta col suo Pincher che, rassegnato nel suo stupido cappottino scozzese, li divorava voracemente sulla fiducia e senza fame. Mi venne l’istinto di salutarla, ma lei mi ignorò, assorta in una rivista anonima. Ludovica, la barista con le discromie cutanee sulle mani, compilava a fatica le parole incrociate di una rivista di gossip per cerebrolesi. Io fissavo il mio grasso e inaffondabile iceberg di panna montata e pensavo: lavoro, casa, menate, strane coincidenze. Tra i mille pensieri confusi e vorticosi come onde che affondavano e riemergevano disordinatamente nella mia testa, uno solo galleggiava sicuro come quell’iceberg di panna montata sulla melma nerastra del mio cervello. Come tentavo di fare con quella panna, cercai di affondarlo ma lui ostinatamente riaffiorava sempre. Così chiesi alla barista:

“Come si chiamava quella Contessa?”

“Come scusi?”, finì la parola di cinque lettere che stava scrivendo dopodiché finalmente alzò la testa.

“Si ricorda? Io sono il tipo di ieri sera che ha trovato il Municipio chiuso...”.

“Scusi sa, con tutta la gente che passa ...”, fece cenno di no.

“Mi aveva raccontato di quella Contessa...»

“Dice del fantasma!” s’intromise, ridacchiando in modo inquietante, la vecchia col cane.

“Come si chiamava la Contessa?”, ripetei ignorandola.

“Lei dice la Contessa Sauli Pallavicino?”

“La Contessa Sauli Pallavicino si chiamava Luisa e il suo architetto Luigi.” continuò imperterrita la vecchia.

“Ma…No, non era... Ne... Cambiasso...”.

“Ah! ... Negrotto Cambiaso!” precisò la barista.

“Ah! Si! Negrotto Cambiaso... Cambiasso giocava nell'Inter.”, risi da solo.

“Quella, il fantasma, era una Marchesa, non una Contessa!”, continuò la vecchia impicciona. La barista aggiunse:

“È quella cui hanno dedicato il nome del parco. Per forza, gliel'ha donato lei al Comune - pausa - i frutti del Ciliegio!”

“Ciliegie!”

“Non ci sta!”

“Provi a metterci la ‘i’ prima della e finale.”

“È vero... Ci sta!”

Annuii.

“Non so come si chiamava di nome la Marchesa... Mi sembra... no. Non mi ricordo come si chiamava di nome. Luisa lei lo sa?”, la vecchia col cane sbuffò e alzò le spalle con la bocca piena di panna.

“Non importa, non è così importante. Grazie lo stesso e buonasera.”

“Arrivederci!”, ricambiò il saluto riponendo lo sguardo sul suo inestricabile rompicapo elementare.

Ma quando raggiunsi la soglia della porta, la voce tremolante della vecchia,

che, nel frattempo si era liberata la bocca dalla panna montata, mi raggiunse

dritta in mezzo alle scapole come una freccia Comanche:

“Matilde. Si chiamava Matilde!”

(Tutti i diritti sono riservati) ©

Maurizio Denti Pompiani

maudenpo@gmail.com

 

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