Nuvole compatte e dense non lasciavano presagire nulla di buono sul fatto che da lì a poco avrebbe smesso di piovere. Pensavo alle parole di Click sul mio stato mentale, sulla puerilità dei miei sentimenti, sulla mia immaturità. Aveva ragione, aveva istituzionalmente ragione. Quella ragione che non ha nulla a che fare, però, con le emozioni, con i sentimenti. Aveva la ragione di quelle cose che si possono scrivere, mentre io e quella ragazza ci eravamo ritrovati tra le righe, in quegli spazi interlineari che, la stragrande parte delle persone salta, per passare alla riga successiva, impegnati, come sono, a leggere la storia che vorrebbero leggere di sé. Cosa mi spingeva a cercare quella creatura? Perché desideravo così tanto vederla? Non un impulso sessuale, come alludeva Click, anzi, era proprio l’asessualità dello stesso a preoccuparmi, a farmi intendere che mi trovavo di fronte a qualcosa di diverso, potente, che si stava radicando profondamente nel mio inconscio o, ancora peggio, il cui seme era sempre giaciuto lì, represso, latente al buio, e la luce di quella fanciulla aveva fatto germogliare. Il solo pensiero di quest’ultima ipotesi mi spaventò a morte, perché sapevo benissimo che, qualora fosse stato così, mi sarei trovato davanti a qualcosa che avrebbe prescisso ogni mia razionale volontà. Ragione per la quale non riuscivo a togliermi dalla mente quella stupenda creatura. Decisi. Di chiamare Paola, probabilmente per placare un angosciante senso di colpa:
“Pronto. Ciao Paola, come va?”
“Perché mi chiami a quest’ora?”
“Nulla… volevo solo sapere come va.”
“E come vuoi che vada? Come al solito va. Devo scarrozzare tuo figlio a feste e casa di amici. Casa da pulire, piatti da lavare, cucinare, mestieri da fare e, adesso, anche il giardino da pulire. Mentre tu stai lì beato, al mare.”
“Io non sto qui, beato, al mare… sto lavorando…”
“Sì, sì… vabbè. Avevi bisogno di qualcos’altro, per caso?”
“No, figurati. Lascia stare.”
“Come lascia stare… hai ragione tu, adesso?”
“Ma quale ragione… ragione di cosa? Lascia stare, dai. Ciao”
“Ciao.”
Decisi di procedere a piedi. Sul parabrezza di una macchina parcheggiata da pirata della strada c'era un biglietto assicurato al tergicristallo in modo che si potesse leggere dall'interno dell'abitacolo, ma la carta era stata resa trasparente dalla pioggia facendo così che si potesse leggere, al contrario, anche da fuori. Era un livoroso messaggio che insultava pesantemente l'incauto proprietario, e lo avvisava che la sua macchina si trovava su una proprietà privata. Gli si chiedeva chi gli avesse rilasciato la patente precisando che, la prossima volta, avrebbero immediatamente avvisato i vigili per la rimozione forzata. Mi venne un’idea.
Presi a ritroso il tragitto che mi portò al commissariato, tre passi e giù nella prima viuzza ortogonale a destra, poi ancora a sinistra un paio di volte e giù da un carruggio fino al piccolo ingresso secondario a Nord che porta al parco, lato serra monumentale.
Entrai, non senza qualche brivido e titubanza. Ma non sapevo se si trattava d'ansia per la paura di qualcosa a cui fermamente non credevo oppure, molto più verosimilmente, l'emozione di un auspicabile incontro. E se anche la incontrassi? Ecco sì! Mettiamo che adesso la incontro: che faccio? La fermo? O meglio: mettiamo che mi fermi lei, per assurdo, e mi chieda di... ma mettiamo pure che m'inviti a cena fuori o mi dia anche il suo numero di cellulare: cosa faresti? Instaureresti una relazione? T'innamoreresti di una che ha la metà dei tuoi anni? O semplicemente vorresti scopartela e poi mollarla con una scusa. Beh! Quello magari sì. Ma poi… se s'innamora lei e mi telefonasse in piena notte o mi mandasse i soliti messaggini assurdi a orari improbabili? No, no, no! Non metterei mai a repentaglio la mia storia con Paola per una sbarbata qualsiasi. Questo è certo. Ma allora perché? Come mi ha chiesto Click: Perché? E soprattutto: perché non ho saputo rispondergli? E perché non riesco a rispondere neppure a me stesso? Questa storia sta diventando sempre più assurda. Sempre più maledettamente assurda. Ma che cazzo stai facendo Luigi? Che cazzo stai facendo?
Nonostante questi pensieri accavallati e confusi, percorsi il sentiero lattiginoso di ghiaia calcarea e rasentai il castello da dietro, lasciandolo alla mia sinistra Passai da uno stretto passaggio posteriore all'edificio con grotte artificiali sulla destra in cui hanno ricavato dei cessi pubblici.
Sbucai su un ampio terrazzamento intermedio sovrastato da un altissimo muro a secco ricoperto di piante rampicanti con una garitta d'avvistamento in pietra esposta all'angolo a sud. Guardai l'area di parco sottostante in cui individuai in lontananza, oltre l'agrumeto, la fontana rotonda con il cherubino trombettiere. Scesi per raggiungerla. Oltrepassai l'agrumeto, e più giù, il gigantesco Cedro del Libano. Finalmente raggiunsi nell'angolo più remoto a Sud, la fatidica panchina nascosta dal canneto. Era miserabilmente vuota. Le braccia mi caddero lungo i fianchi dalla delusione. Anche il parco era vuoto. Lugubre, reso ancor più spettrale dagli agghiaccianti richiami lamentosi dei pavoni. Inquietante. Cercai e trovai, nell'ultima tasca che andai ad esplorare, una penna. Scrissi sul retro di un mio biglietto da visita: “Se hai smarrito un orecchino, e sei in grado di descriverlo, telefonami!”
Era l'ultimo, probabilmente stupido, tentativo che misi in atto per salvare l'ultimo briciolo di onestà intellettuale che mi rimaneva. Oppure, molto più verosimilmente, solo l'ultima speranza che avevo di rivedere la sua magnifica proprietaria dagli occhi di smeraldo. Infilai il biglietto da visita in un rametto sporgente da un tronco di una latifoglia ben riparato in modo che fosse visibile dalla panchina. Poi, sullo stesso tronco, scorsi un anfratto, come il nido di un picchio, largo abbastanza e non troppo profondo un posto adatto in cui nascondere l’orecchino. Mi assicurai che non ci fosse nessuno attorno che potesse notarmi, lo guardai per l'ultima volta e notai che il colore della pietra era verde, di un verde identico a quello delle foglie. Lo misi lì dentro, nel caso che quella ragazza si fosse fatta viva, ed io fossi già tornato a casa, non avrei dovuto tornare in Liguria per restituirle l’orecchino. Mi sarebbe bastato rivelarne l’ubicazione. Nel caso in cui nessuno si fosse fatto vivo, quando fossi tornato da quelle parti per installare l’impianto, mi sarei ripreso l’orecchino e tanto meglio per tutti. Tornai quindi a sedermi sulla panchina per controllare che il biglietto si notasse bene anche da quella posizione.
Al mio fianco, dovuto alla flessione delle liste di legno sotto il mio peso, sentii muoversi qualcosa. Era un accendino verde perfettamente mimetizzato come un camaleonte Malgascio. Verde sul verde della panchina. E non si trattava di un accendino verde qualsiasi. Era il mio accendino.
Allora lei è tornata. È stata qui! È venuta a cercare il suo orecchino. O, forse, questo è un messaggio per me.
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Maurizio Denti Pompiani
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