L'indirizzo del dottor Calcagno è in via Cesare Battisti, al numero13, in centro, nei pressi della chiesa di Nazario e Celso, vicino a all'edicola e all'entrata secondaria del parco che porta alla serra monumentale. Più che una via è un vicolo stretto che non si nota, in fondo al quale c'è un piccolo parco secondario trasandato, con un'antica torre d'avvistamento Saracena, in rovina, dimenticata da tutti.
La villa settecentesca era austera, imponente. Recinzione alta con inferriate antiche e un grande giardino. Più che un giardino, un vero e proprio parco, con tanto di alberi secolari, siepi, viali con ghiaietto bianco e fontana compresa. Lo stile mi sembrò subito familiare. Il campanello non aveva nome sulla targhetta, solo il numero 128. Capitan Findus mi accolse sorridente, alla fine dell’ampio viale d’ingresso, quattro gradini più in alto, sulla soglia di casa, glabro ed elegante, la sua testa lucida rifletteva la luce della lampada appesa sopra di lui. Sorrise con un sorriso diverso, più rilassato, e dimostrava perfino qualche anno in meno dei dieci in più che dimostrava nel pomeriggio. A suo agio nella sua vestaglia di seta blu royal con le iniziali del proprio nome ricamate lato cuore. Aveva cambiato foulard per l’occasione, forse.
“Buonasera signor Ranzetti; addirittura in anticipo!”
“Dottor Calcagno... spero di non averla disturbata!”
“Assolutamente no! Entri, entri pure. La stavo aspettando, venga!”
L'ingresso era lussuoso nello stile della villa, ampio pavimento in marmo, boiserie in noce alle pareti, tappezzeria di lusso con motivi floreali in rilievo. Trumeau Luigi xv e console di mogano scuro con abbellimenti floreali, intarsi di bronzo e madreperla. Ampio specchio e lampadario imponente di cristallo appeso al centro della stanza. C’era la statua di marmo di una donna completamente nuda con i fianchi larghi, cellulite nelle cosce, pancia rotonda e tette piccole, secondo i canoni di bellezza del tempo.
Seguii l’affabile cliente e i suoi melensi cerimoniali, fino alla porta di rovere scuro che lui mi spalancò davanti annunciandomi il suo ufficio:
“Qui staremo tranquilli, si accomodi pure!”
Sprofondò in una comoda Frau in pelle marrone scuro, dietro una massiccia scrivania in stile Marina in linea con l'arredamento e la collocazione ambientale.
“Le ho portato i suoi sigari!”
“Ah! Grazie! - li afferrò fingendo di essere sorpreso - adesso sì che ci sono tutti i presupposti per cui il nostro affare possa concludersi nel migliore dei modi, – sorrise in modo ipocrita, attese che lo facessi anch’io per accondiscendere. Lo accontentai –, battute a parte, vedrà che abbiamo fatto bene a muoverci in anticipo con le carte e i permessi in Comune. La burocrazia italiana è così... farraginosa. Lo sa. In questo bellissimo Paese ci sono ingranaggi che vanno… oliati!”
“Non me lo dica!... Specie quando si va a configgere con gli interessi delle grandi multinazionali. Energetiche, in questo caso.”
“Sì eh?”
“Proprio così”
“Immagino!”
“Il mio principale ci tiene a farle sapere che confidiamo molto nella sua sollecitudine, nonché nell'autorevolezza del suo parere in qualità di amministratore delegato all'assemblea della Comunione Vivere Mare 2000.”
Affermai con il tono più solenne che mi riuscì.
“Per quanto mi riguarda potrete assolutamente contare sul mio appoggio. Rassicuri pure il dottor Taccone!”
“Non ce ne sarà assolutamente bisogno... Non con clienti del vostro pregio.” Specialmente se abbiamo appurato prima che godono di un certo credito presso le proprie banche.
“Lei mi lusinga!”, gongolò.
Ritirò la scatola di sigari, senza aprirla, in un cassetto della scrivania che chiuse accuratamente a chiave.
Prese, finalmente, in mano il mio contratto definitivo e disse:
“L'ultima parola, adesso, spetta al vero Deus Ex Machina di tutto, nonché strenuo detentore del cinquantuno per cento delle azioni di questa società: mio padre - sorrise e aggiunse in tono confidenziale – nonostante la sua età non intende mollare il timone a nessuno. La vedo fremente e un po’ emozionato, la capisco sa? Chi non lo sarebbe in occasioni come questa? Ma stia pure tranquillo: dovrebbe trattarsi solo di una formalità visto che la scelta di rivolgersi personalmente a lei è stata la sua.”
“A me, personalmente? Quale onore. Non mi dica che non avete vagliato altre proposte oltre la nostra, perché non ci credo.”
“Ovviamente sì! Ma le pare che prima di spendere due milioni di Euro uno non si faccia fare altri preventivi? A dirle la verità, ce n'erano alcuni della concorrenza che mi sembravano più vantaggiosi del vostro. Ma lui è stato irremovibile: ha scelto voi... anzi... lei, per la precisione! Una condicio ‘sine qua non!”
“E per quale motivo, secondo lei?”
“E chi lo sa? Mistero! Un motivo ci sarà sicuramente ma vuole tenerselo nascosto e svelarlo al momento opportuno. Ama i coup de théâtre.”
“Oppure, suo padre ha solamente un buon fiuto.”
Lui non colse l'ironia della battuta:
“In effetti, si fida solo di quello! E lui raramente ha sbagliato nella sua vita, bisogna riconoscerlo. È una cosa, anzi, che tutti gli riconoscono. Certe persone hanno come una specie di sesto senso in certe cose, non trova?”
“Sesto senso? Mah... pare proprio di sì. A questo punto comincio a crederlo anch’io.”
I miei occhi andarono oltre le spalle del mio interlocutore, al di là della grande vetrata scorrevole alle sue spalle. Lui si girò in direzione del mio sguardo e chiese:
“Ha visto qualcosa che gli interessa?”
“No, niente, mi scusi, guardavo le sue piante!”
“Le piacciono le piante?”
“Il suo giardino, è la prima cosa che ho notato entrando. Forse perché sono rimasto impressionato dal parco comunale che avete qui!”
“Beh!... Non esageriamo coi paragoni, il nostro, in confronto è una bazzecola, e, comunque il merito di questo giardino non è certo il mio. È tutta opera di mio padre, è lui l'esperto, l'appassionato di queste cose. Prima se ne occupava di persona, adesso, ormai è vecchio e non ce la fa più, ci sono dei giardinieri che se ne occupano, anche se sempre sotto la sua severa, accurata, attenta supervisione. A me... bah… non ho ereditato certo la sua passione. So solo che mi costa un patrimonio mantenerlo. Però, devo ammettere che ne vale la pena - fece un sorriso amaro - strano, per una volta sono d'accordo con mio padre. Peccato che sia buio altrimenti glielo avrei fatto visitare... la prossima volta magari!”
“Volentieri...grazie. La prossima volta senz'altro.”
Sapevamo entrambi che non ci sarebbe stata una prossima volta.
“Crodino o preferisce qualcosa di alcolico?”
Senza aspettare la mia risposta mi versò in un bicchiere di cristallo fresato un liquido rosso che puzzava di collutorio. Ne prese uno anche lui.
“Al nostro affare allora: Buon vento!”, alzò il bicchiere verso di me.
“Buon vento!”, imitai il prematuro augurio nel gergo velistico accompagnandolo da un gesto apotropaico con la mano nascosta dal tavolo.
“Venga! È ora di suggellare il nostro affare!”
Feci cenno di non aver capito bene.
“La firma di mio padre!”
“Ah!... Già!... Certo, la firma!”
Si alzò.
Mi alzai.
Lo seguii nella sala attigua.
“Papà, papà! - chiamò - qui non c'è... aspetti che lo cerco... ci metto un attimo!”
“Ma prego... faccia pure.”
Sentii i suoi ripetuti richiami sfumare gradualmente in altre stanze.
Quella, in cui mi trovavo, aveva un aspetto notarile, alta e spaziosa, con le pareti rivestite di pesanti pannelli in mogano scuro; lunghe librerie stipate, alte fino ai sovrastanti terrazzi interni, con balaustre di legno massiccio, che contornavano la stanza per tre pareti su quattro, delimitando il reparto notte che si raggiungeva tramite un'ampia scala di legno, in stile hollywoodiano che scendeva allargandosi verso il basso con una balaustra larga e imponente, anch'essa in legno scuro e massiccio, come i pilastrini che la sorreggevano. C’erano leggii, spartiti e strumenti musicali un po’ ovunque, mandole, violini, flauti, un contrabbasso, perfino un trombone. Una chitarra più bella della mia. Tra i quadri appesi alle pareti notai una partitura del Lacrimosa di Mozart autografata da qualche personaggio famoso, forse un direttore d’orchestra. Sentii i passi frettolosi del cliente avvicinarsi. Quando giunse trafelato nella stanza vide che guardavo quello spartito appeso e mi disse:
“Ah… quello è un regalo della marchesa Matilde Giustiniani a mio padre. Volle che lui la eseguisse al suo funerale. Comunque non è in casa, dev'essere in giardino: mi segua per favore.”
“Lei suona?” Indicai gli strumenti musicali, camminando.
“Ah!... Quelli? Sono di mio padre... Sempre lui, è lui l'artista della casa! Io invece ho preso tutto dalla mia povera mamma: sono pratico, pragmatico, venale. L'unico strumento che so suonare è la palanca! Lo sa cosa sono le palanche?”
“Sì i soldi!”
“Esatto! Come li chiamate voi dalle vostre parti?... Dané?”
Gli diedi la tara annuendo.
“È stato per molti anni il direttore della scuola locale di musica la cui sede è nel parco. Non so se l’ha vista, è piuttosto nascosta, nei pressi della serra monumentale. Mio padre insegnava musica, tra le altre cose. Adesso, sono anni che è inattivo. La vecchiaia, l'artrosi, è anche diventato un po’ duro d'orecchi. D'altronde sono quasi ottantuno ormai! Ma non lo chiami maestro, direttore eccetera. Lo chiami solo per nome... Fausto, preferisce.”
“Va bene... Fausto! Una persona interessante suo padre: un musicista con la passione del giardino.”
“Beh! A dire il vero, la sua, fu più di una passione. Prima di fare il musicista mio padre fu, per tanti anni, giardiniere di professione. Ci tiene che si sappia. Se dovesse blandirlo faccia leva sul fatto che fu un grande giardiniere, se proprio vuole fargli un complimento, ma solo se lo ritiene indispensabile. È sempre stato refrattario ai complimenti. Comunque, in quelle poche volte che l’ho sentito vantarsi, l'ho sentito farlo per le sue virtù botaniche e mai per il suo talento musicale, per il quale, invece, avrebbe potuto benissimo gloriarsi, in quanto era un musicista piuttosto quotato, benché quasi totalmente autodidatta. Aveva talento e un ottimo orecchio. Eppure, nonostante ciò, sembra assurdo, ma penso che le migliori soddisfazioni della sua vita le ricavò, dalle piante e non dalla musica. Fu per anni il capo giardiniere della marchesa Negrotto Cambiaso, la ex proprietaria della villa dove c'è adesso il municipio. Molte di queste piante gli furono donate proprio da lei in persona. Era molto generosa... con mio padre, almeno. Non so se fosse poi generosità o riconoscenza professionale. Mia madre non la sopportava molto, per usare un eufemismo. La riteneva responsabile dell'atteggiamento di mio padre soprattutto di quella sua aria perennemente assente, distratta, quando gli diceva una cosa lui non la sentiva o se la dimenticava istantaneamente. Per anni, mia madre, ha vissuto con la convinzione che la marchesa fosse la sua amante, benché molto più anziana di lui. Era molto gelosa e lo pressò fino alla fine affinché lasciasse il suo impiego. Ma senza risultato. Mio padre resisté fino al giorno della scomparsa della Marchesa. Io, personalmente penso che di amanti, in realtà, mio padre, non ne avesse solo una ma bensì due: il giardinaggio e la musica. Ma la Marchesa no.”, scosse la testa sorridendo.
“Lo capisco, anch'io suono... beh!... strimpello… diciamo quanto basta per creare qualche disaccordo con mia moglie. Qualcuno ha detto che una delle difficoltà maggiori nella vita di un artista sia quella di convincere la propria moglie che quando egli passa ore davanti alla finestra scrutando il nulla, sta lavorando. Figuriamoci quando ci si esercita con uno strumento musicale.”
“Essendo figlio di un artista non fatico a crederlo.”
“Così suo padre conosceva la marchesa Matilde Negrotto Cambiaso!... Incredibile... dice sul serio?”
“Altro che... se la conosceva... gliel'ho detto: è stato il suo giardiniere di fiducia per anni.”
Ascoltai la sua risposta anche se la mia era un'esclamazione più che una
domanda. Uscimmo sospinti dalla conversazione attraverso le pesanti
vetrate scorrevoli che portano in giardino.
“Adesso che me lo dice, riconosco una certa similitudine di alcune tra queste piante con quelle del parco Comunale! Bello questo!”
“È un Cefalotasso, Cephalotaxus Harringtonia!”
“Anche quello!”
“Quella è una Thuja. Thuja Plicata!”
“Vedo che anche lei non scherza in fatto di botanica!”
“Ma no, sono solo nozioni, acquisite nel tempo, a furia di sentirmele ripetere.”
“Avete anche una serra?”
“Sì ma, non si aspetti quella del parco. La nostra è molto più modesta!”
“Naturalmente... quindi avrete anche un gazebo o sbaglio?”
“Anche quello... sì... lì in fondo. Ci stiamo dirigendo proprio in quella direzione!”
“Che Bouganville! Ma come fa? Io faccio morire anche il Ciclamino!”
“Beh! Perdoni il luogo comune, ma il clima qui è sicuramente diverso dal vostro! Ma se glielo chiede a mio padre potrebbe anche avere la spudoratezza di dirle che il vero segreto è quello di parlare alle piante. Dice che se gli parli, le piante diventano più belle... Se mi permette, sono scettico in queste cose, io ragiono con i numeri, con la metafisica non ho alcuna dimestichezza!”
“Siamo in due allora!”
“Anche se riconosco che qualcuno è indubbiamente dotato di quello che chiamano: il pollice verde, ma penso che il segreto stia tutto nella potatura e nella giusta concimazione.”
“A proposito, non c’è solo chi ci parla, alle piante, ma anche chi le ascolta. Mi è capitato giusto ieri di incontrare una ragazza, al parco, che piangeva disperata davanti a una Magnolia. Mi ha detto che quella pianta le aveva annunciato addirittura la sua morte imminente. E che la stava vegliando! Roba da matti, non crede?”
“Davvero le ha detto così? Non mi dica!”
“Davvero... Era anche una bella ragazza, per dirla tutta.”
“Mora, capelli lunghi, occhi verdi… era così?”
“Sì, proprio così, esattamente. Come fa a saperlo?”
“Curioso! Non mi dica che, anche lei...”, interruppe bruscamente il cammino. “Anch'io cosa?”
“Che anche lei è uno di quelli che sostiene di avere incontrato il famoso fantasma del parco.” Scoppiò a ridere.
Risi anch’io per empatia:
“Fantasma? Oh dio... Speriamo di no! Quella che ho incontrato io, comunque, era in carne e ossa, glielo posso assicurare.”
“Ma certo, sicuramente lo era. Stavo scherzando naturalmente. Sa perché glielo dico?... Perché qui da noi esiste una leggenda secondo la quale il fantasma della Marchesa, donna dalla straordinaria bellezza, tra l’altro, si aggirerebbe solitario nel parco, nei giorni di pioggia, parlando alle piante, e non solo a quelle. Pare che si avvicini anche alla gente chiedendo se abbiano trovato il suo orecchino. Ovviamente tutto frutto della fantasia popolare, ma, come per tutte le leggende, non senza un riferimento storico reale. La Marchesa, una donna bellissima da giovane e molto carismatica anche in età avanzata, sollecitò molto la suscettibilità popolare. E quell’orecchino, tramandato da generazioni, lo perse davvero e continuò a cercarlo fino all’ultimo dei suoi giorni. Invano, purtroppo. Da cui la leggenda che le sopravvive ancora dopo decenni.”
“Ne ho sentito parlare, in città, in un bar.”
“Si tratta solo di una vecchia leggenda, naturalmente, che, ultimamente è stata rispolverata da alcune persone che andavano, e vanno, in giro dicendo di averla incontrata. Pensavo si trattasse di qualche disadattato in preda ai fumi dell'alcool o di qualche sostanza psicotropa. Ma, se adesso, mi dice di averla incontrata anche lei. La cosa cambia. Davvero l’ha incontrata? Mi racconti un po’…”
“Certo… magari dopo…”
“Ah sì, certo: prima il dovere.”
Riprendemmo il cammino:
“Devo complimentarmi con lei per la sua villa: è di una bellezza impressionante!”
“La ereditò mio padre dalla marchesa Matilde come ricompensa per il proprio lavoro.”
“Cavoli! Deve essere stato veramente bravo, nel suo lavoro, suo padre.”
“Oh, sì! Molto bravo! Capisco che le possa sembrare piuttosto eccessiva come ricompensa - mi lanciò uno sguardo tendenzioso che feci finta di non cogliere – ma lui fu il migliore, non c'è dubbio... certo che, se ascolta la gente, sentirà versioni ben più maliziose, che sono poi quelle che avevano insospettito mia madre. Probabilmente, la verità è che, tra i due, si era instaurato un rapporto particolare, direi intimo, nel senso platonico del termine, non mi fraintenda, ma non potrebbe essere altrimenti, vista la differenza d'età, uno strano legame, una specie di affinità elettiva. Scaturita però da un fatto determinante.”
“Cioè?”
Mi guardò dubbioso sul fatto se continuare o meno la sua storia. Poi continuò in tono assolutamente confidenziale:
“Mio padre, almeno così lui mi disse, un giorno mentre lavorava al parco trovò un orecchino vicino a una panchina a Sud Ovest, la più remota del parco, dove lei, solitamente si recava, in cerca di tranquillità, a leggere.”
“Un orecchino? Il famoso orecchino della leggenda.”
“Esattamente quello.”
“E dove lo trovò?”
“Nella panchina a Sud Ovest.”
“Quella dopo il Cedro monumentale?”
“Sì, esatto, proprio lì”
“Ah!”
“La conosce?”
“Sì… ci sono stato.”
“Era un orecchino di grande valore, tramandato alla Marchesa da generazioni, la cui pietra fotocromatica, si diceva, possedesse il dono di rigenerare i tessuti organici vegetali. Non si sa se avesse avuto realmente qualche effetto anche sugli esseri umani, per la gente, ovviamente ce l’aveva. Pare, però, che ce l'avesse eccome sulle piante.”
“Un orecchino con una pietra foto cromatica?”
“Esattamente.”
“La marchesa ne perse uno, disperata, fece di tutto per ritrovarlo. Fu messa anche una ricompensa per colui che l’avesse riconsegnato alla proprietaria. Ma non fu mai ritrovato e lei non smise mai di cercarlo, questo non fece che alimentare la leggenda.”
“E suo padre lo trovò…”
“Quel giorno, avendolo trovato, mio padre, non credendo ai suoi occhi, corse immediatamente a portarlo alla Marchesa! Però non si trattava dell'orecchino smarrito da anni ma di quello superstite che la Marchesa Matilda aveva smarrito il giorno prima. Comunque, fatto sta, che volle ricambiare l’onestà di mio padre chiedendogli cosa desiderasse avere come ricompensa.”
“Non è possibile che l’abbia lasciato lì apposta, sapendo che l’avrebbe trovato suo padre, in modo da testarne l’onestà?”
“Beh… anche… certo. Può essere, perché no?”
“E lui cosa chiese in cambio? Questa villa?”
“Lui chiese una chitarra.”
“Una chitarra?”
“Sì, una chitarra, avere una bella chitarra, in quei tempi, soprattutto per un giovane squattrinato appassionato di musica come lo era mio padre, era un sogno.”
“Poteva chiedere almeno un pianoforte!... Dice che l'avrebbe accontentato lo stesso?”, sorrisi.
“Oh sì!... Penso di sì. La Marchesa non aveva certo problemi di soldi. Ma lui voleva una chitarra! E comunque la ricompensa non si limitò certo solo a quello!”
“Vuole dire che...”
“A parte questa villa che comunque gli lasciò dopo la sua morte, prima, la marchesa si occupò degli studi musicali di mio padre, - anche se lui, per rispetto, li relegò sempre alla fascia oraria post lavorativa - e di fargli avere quella struttura in cui si esercitò per anni. Quella vicino alla serra, ora scuola di musica. E poi altre cose…”
“Una mecenate di straordinaria generosità!”
“Forse l'ultima della storia… in più genovese - scoppiò a ridere -. Comunque il loro rapporto fu particolare come lo fu la ragione per la quale decise di assumerlo definitivamente come giardiniere. Lei deve capire che, allora, entrare a far parte della squadra di giardinieri privati della Marchesa non era una cosa da poco. C'era la fila, per così dire, ad aspettare una simile, rarissima, opportunità. Ogni tanto, ma... ogni tanto! La marchesa indiceva come una specie di concorso pubblico in cui metteva in ballo un posto vacante da apprendista giardiniere, garzone, factotum eccetera. Era un vero e proprio evento, organizzato e gestito dal Comune in presenza di autorità, con eventi eccetera, in cui si presentavano decine, a volte centinaia, di candidati. Lo stipendio era ottimo, quindi non era mica facile entrarci sa?”
“Non lo dubito!”
“Quella volta, ai pochi preselezionati, venne affidato il compito di piantumare l’area anticamente occupata da un laghetto, quella occupata dal parco giochi, per intenderci. Il vincitore naturalmente veniva assunto. Tra i selezionati, quel giorno, c'era mio padre. Non era certo un giardiniere, non aveva mai avuto nessun interesse per le piante ma aveva perso una scommessa con i suoi amici. Questa gliela racconto: ogni mese disputavano una corsa in bicicletta fino al monastero del deserto, lui e una decina di scalmanati come lui. Il monastero si trova a parecchi chilometri da qui, inerpicato sulle montagne qui dietro. Un percorso piuttosto ripido e tortuoso. Comunque, il primo che arrivava poteva chiedere all’ultimo di scambiare qualsiasi cosa egli volesse con lui. Questi erano i patti.”
“E suo padre arrivò primo?”
“Assolutamente no. Arrivò ultimo! Il primo fu un certo Ferlinghetti.”
“Quindi?”
“Quindi Ferlinghetti chiese a mio padre di scambiare la propria identità con la sua per un giorno. Questo perché Ferlinghetti, ottimo giardiniere, figlio di giardinieri rinomatissimi del posto, avrebbe dovuto presentarsi, costretto dai suoi a suon di sberloni, alle selezioni della Marchesa nello stesso giorno in cui mio padre avrebbe dovuto dirottare in giro per tutto il pomeriggio la sorella di un suo amico il quale aveva un appuntamento con la “Lavandaia”, una floridissima signora del posto, la quale doveva il suo nome non certo alla sua professione quanto alla frequenza con cui si trovava costretta a cambiar le lenzuola del proprio letto. Non so se … Beh, per farla breve, Ferlinghetti era il fidanzato segreto della sorella dell’amico di mio padre. L’amico con la lavandaia e la sorella con Ferlinghetti.”
“Quindi suo padre andò alla selezione e Ferlinghetti con la sorella dell’amico di suo padre il quale andò con la Lavandaia.”
“Esattamente così… Piuttosto contorta la storia, ma è andata così”
“E suo padre, senza nessuna competenza in giardinaggio, come passò le selezioni? Come venne assunto dalla Marchesa? Perché immagino sia andata così no?”
“Naturalmente. Lei, dando per scontato che tutti i selezionatissimi giardinieri del posto conoscessero a menadito il suo parco, disse ai concorrenti finalisti: questa è l’area: fatene un giardino consono. Anzi no. Disse congruo non consono, per la precisione.”
“E lui, immagino, le consegnò un giardino bellissimo!”
“Eh no mio caro! In quel modo si sarebbe messo in competizione con giardinieri ben più esperti di lui coi quali avrebbe sicuramente avuto la peggio. Lì c’è la genialità di mio padre, perché gli altri le consegnarono un bel giardino, come dice lei appunto. Lui, invece, le consegnò un giardino intonato!”
“Intonato?”
“Intonato! Da buon musicista e conoscendo la celeberrima cultura musicale della committente mio padre intuì cosa la Marchesa intendesse esattamente con quel termine: congruo. Fu come una folgorazione, mi disse. Mentre gli altri si affrettavano a prendere appunti e misurare viali e aiuole per stilare il proprio progetto botanico, con alberi pregiati, esotici, bellissimi e rari, lui si sedette in vari punti differenti del parco e si mise semplicemente in ascolto. Ancora adesso ti parla degli alberi come di strumenti dove il tronco fa da cassa armonica e le foglie sono ance con lamine uniche e irripetibili che il vento suona facendole vibrare… cose così. Lui considerò, e ha sempre considerato, gli alberi come strumenti musicali. Ora, si immagini. Ogni albero è un pezzo unico: nella sua forma, nella struttura del suo legno, nel numero delle sue foglie, nella propria consistenza. La ramificazione e le dimensioni del tronco. Insomma, ogni albero è uno strumento unico e irripetibile, per cui, se attraversato dal vento, o percosso dalla pioggia, diventa facilmente riconoscibile dal proprio inconfondibile suono. Quella fu la sua mossa vincente. Lui era, allora, e penso che lo sia tutt'ora, in grado di riconoscere ogni albero dal proprio suono, ad occhi chiusi. Naturalmente in presenza della seppur minima brezza o della pioggia. E siccome qui c’è sempre vento ciò può avvenire praticamente sempre. Pensi che, quando ero piccolo passavo lunghi periodi in quel parco a giocare. Io e mia madre aspettavamo che mio padre uscisse dalla sala in cui studiava e provava i suoi concerti, nella dependance del castello messagli a disposizione della marchesa, come le ho già detto. Quando lui finiva le prove, ci raggiungeva nell'area dei giochi, dove mi trovavo, dando il cambio a mia madre che ne approfittava per tornare a casa a sbrigare le sue faccende domestiche. Una volta rimasti soli, io e lui, giocavamo. Spesso, specialmente nelle giornate di vento, facevamo un gioco in particolare: mio padre si faceva bendare, io dovevo portarlo in altre zone del parco, farlo girare su sé stesso in modo da disorientarlo e fermarlo improvvisamente, dopodiché dovevo lasciarlo lì, in silenzio, per qualche secondo, fino a quando cominciava ad elencarmi il nome di tutti gli alberi che aveva alle sue spalle, il loro numero e se erano grandi o piccoli!”
“E ci azzeccava?”
“Non ci crederà, ma non ne sbagliava uno!”
“Va beh!... Immagino che, sebbene bendato, spiasse di nascosto e, comunque, conoscesse talmente bene quel luogo da sapere esattamente dove si trovasse. Resta comunque il fatto che ci vuole un bell’orecchio. O forse una poderosa memoria fotografica”
“Capisco la sua diffidenza. Il problema è che lui riusciva a farlo ovunque. Non solo nel Parco”
“Ah! Figo!”
“C'era solo un'altra persona, in grado di fare altrettanto.”
“Tiro ad indovinare: la Marchesa?”
“Indovinato!”
“Probabilmente era un gioco che aveva insegnato lei a suo padre. Ma, francamente, lei pensa che possa esistere veramente qualcuno al mondo in grado di riconoscere il tipo di legno dal suono che produce?... O pensa che suo padre avesse escogitato un abile trucco ad effetto per impressionarla?”
“Se così fosse. A che pro perseverare anche oggi nel suo segreto? Mi creda, se le capitasse di metterlo alla prova, se ne renderebbe personalmente conto.”
“Non dubito, anche se è una storia incredibile. Non credevo esistessero persone così.”
“Orecchio assoluto! Questo, forse, è il nome del trucco cui allude. Già sentito parlare di una cosa del genere?”
“Beh! Certo sono un musicista... nel mio piccolo dilettantismo”.
“Penso possa essere qualcosa del genere. In più, a me risulta che un liutaio sufficientemente esperto, scelga il legno da impiegare a seconda del suono che vuole riprodurre. E viceversa. E non parlo di suono come note e basta, ma di tutte le sue componenti timbriche e di tutte le varie qualità e sfumature che gli attengono. Un suono, a lei magari dice una nota, mentre a un liutaio racconta il tipo di legno e la sua stagionatura. Gli dice l'età, la provenienza, e chissà cos'altro ancora, di quel legno. Le consiglio di leggere qualcosa a proposito di Antonio Stradivari, e di come neanche le ultime tecniche di immagine, abbiano saputo comprendere il segreto del materiale da lui usato per costruire i suoi strumenti. Alcuni studi sostengono che fu grazie alla piccola era glaciale in cui visse e che grazie alla particolare stabilità climatica di quel periodo che gli alberi più sani e con anelli ben proporzionati poterono crescere in quell’insolito modo e quindi gli permisero di avere a disposizione un materiale non più disponibile oggi. Chissà! Sta di fatto che quell'uomo sentiva il suono di un albero ancora prima di tagliarlo, io sono convinto di questo!”
“È, diciamo: inverosimilmente plausibile! Ma, abbiamo divagato: suo padre si sedette e si mise all’ascolto e considerò gli alberi come strumenti. E poi?”
“E poi, grazie a quello capì, anche grazie al suo orecchio musicale, che quel parco suonava. Che le piante erano state collocate nei secoli con un criterio preciso che non rispondeva a canoni puramente estetici ma …”
“Musicali!”
“Armonici! La Marchesa capì subito che mio padre non le aveva consegnato un progetto qualsiasi, non il solito specchio ruffianamente perfetto nella cui bellezza potesse rispecchiarsi, ma uno strumento ad alberi dal suono meravigliosamente melodioso, dalla timbrica composita fatta dell'armonia di legni diversi, proprio come uno strumento musicale. Strumenti di legno ma non solo, a differenza di qualsiasi altro strumento, il legno di cui erano fatti era legno vivente. Strumenti vivi e perfettamente orchestrati con tutti gli altri presenti nel Parco.”
“Un Alberofono!”
“Alberofono?... Perché no?... Mi sembra una definizione appropriata. Alberofono. Lei, prima, ha detto che quella chitarra è bella. Non si faccia sentire da mio padre. Uno strumento non deve essere bello, deve suonare bene! È sempre stato uno dei motti di mio padre. Pensi, uno strumento fatto di legno vivo, in grado di mutare suono nel tempo, quello sì che era un bello strumento. Forse solo per il semplice fatto di avere anche solo concepito una cosa del genere. Per forza che la Marchesa lo assunse subito senza la minima esitazione. Si immagini gli altri, più esperti e titolati concorrenti, scornati da un pivellino, cos’andarono in giro insinuando. Lui che non sapeva neanche cosa fosse una talea. S’immagini le voci e i pettegolezzi che misero in giro. A volte Io penso che, fu sì grazie a quella sensibilità straordinaria dimostrata da mio padre che lei lo scelse, ma non tanto perché pensasse di aver trovato il suo giardiniere ideale o chissà quale genio della musica, quanto pensasse di essersi trovata di fronte all’unica persona in possesso di una sensibilità tale da renderlo in grado di poter leggere il suo libro”
“Il suo libro? Quale libro?”
“Il suo famoso libro. Un’altra componente reale che poi si è traslata nella leggenda. Si trattava di un libro con la copertina nera, senza titolo, che la marchesa portava sempre con sé ovunque andasse e che nessuno, pare, riuscì mai a leggere. A chiunque, incuriosito, gli chiedesse di che libro si trattasse, lei rispondeva che era un libro che non si leggeva. Non si è mai saputo perché dicesse così né che cosa custodisse così gelosamente scritto in quel tomo anonimo. Se lo portava ovunque, anche a letto. Lo chiudeva e lo stringeva gelosamente a sé come a protezione di chissà quale inviolabile segreto!”
“Probabilmente non era scritto.”
“E chi lo sa?”
“E suo padre, cosa le ha raccontato a proposito di quel libro?”
“Non molto, a dire il vero, è sempre stato piuttosto vago in merito. Una volta disse che, secondo lui, stando alle idee pseudo filosofiche della sua padrona, quel libro trattava di tutte quelle cose che non possono essere scritte ma solo percepite, tipo sensazioni, emozioni, quelle cose lì… Lei era fissata di queste cose, poi deve contestualizzare il periodo, quella signora proveniva culturalmente dal periodo Liberty. L’esoterismo era una componente culturale molto in voga presso le classi agiate. Come le logge, la massoneria… queste cose qui”.
“Lei pensava di possedere percezioni extrasensoriali?”
“Anche... qualcosa del genere. Può darsi. Poi… la gente… sa… le leggende... Alcuni pensavano che fosse un libro speciale, in grado di conferire diversi poteri a chi lo possedeva... Alcuni sostenevano custodisse l’ubicazione segreta del Sacro Graal. Altri che contenesse la chiave per comprendere il linguaggio di qualsiasi forma vivente, animale e vegetale, o addirittura... non vivente. Addirittura che ci si potesse intravedere la data e l'ora precisa della propria morte o che bastasse scriverla sopra per fare che questa avvenisse in quel preciso istante. Altri ancora sostennero, come ha ipotizzato lei, di averlo visto e che non fosse affatto scritto, che fosse intonso. Tutte versioni romanzesche, tipiche del mito che si è costruito attorno. La gente, quello che non sa, se lo inventa.”
“Piuttosto sconcertante.”
In ogni caso la marchesa doveva considerarlo molto prezioso quel libro, visto che lo promise in dono a mio padre, nel caso fosse riuscito a trovargli anche l'altro orecchino, come se fosse una ricompensa speciale, per pochi eletti, molto più preziosa di qualsiasi remunerazione in denaro!”
“E mantenne quella promessa?”
“La marchesa Matilde, secondo mio padre, manteneva sempre le sue promesse!”
“Ah!... Quindi cosa c'era scritto in quel libro?”
“Non si seppe mai per il semplice motivo che né mio padre, né nessun altro, trovò mai l'altro orecchino, per cui... quel libro venne seppellito con lei. In punto di morte, in cui si ricordò di mio padre nel modo che le ho detto, cioè donandole questa villa gli fece un’altra promessa.”
“Un’altra promessa? Sarebbe?”
“Disse che sarebbe tornata a cercare l’orecchino in eterno, nei giorni di pioggia…”
“L’origine della leggenda.”
“L’origine della Leggenda, proprio così!”
“Ho la pelle d’oca”
“Ciò che la leggenda non dice è quello che aggiunse dopo all’orecchio di mio padre e cioè che, l’offerta del suo libro in cambio dell’orecchino sarebbe stata sempre valida, anche dopo la sua morte.”
Suonò il suo telefono facendo il rumore di tante monete che cadono a terra. Controllò il nome sul display:
“Cosa vuole 'sto belinato a quest'ora? Pronto! Ciao Dottore... Sì… ma come? Quando? Ma come stamattina? E me lo dici adesso? Ah… Hanno fato fatica a riconoscerla… immagino… certo… certo… arrivo immediatamente.”
Si girò verso di me con l’aria sconvolta dicendomi che doveva correre all’obitorio per il riconoscimento di un cadavere di una parente e mi avrebbe ricontattato una volta sbrigato l’improvvisa quanto incresciosa incombenza. Ovviamente annuii. Uscii dalla villa e telefonai immediatamente al mio principale, saranno state le venti e trenta circa. Spiegai l’accaduto e ipotizzai uno stop di parecchi giorni tra esequie e tutto il resto. Per cui il giorno dopo sarei tornato alla base a mani vuote. Lui convenne sulla ineluttabilità della sfortunata contingenza, non avrebbe potuto fare altro. La delusione per il mancato affare era grandissima, la preoccupazione di doverlo comunicare a Paola, le conseguenze economiche che ne sarebbero derivate, l’accuratezza dell’interpretazione di quella cosplayer con, perfino, la riproduzione di quel libro. Il mio cervello era come una medusa in un frullatore acceso.
Avrei voluto sentire ancora dettagli di quella storia, poiché più dettagli conoscevo, più mi rendevo conto di quanto quella magnifica attrice stesse recitando magistralmente un copione che sembrava conoscere perfettamente. Questa leggenda si stava subdolamente intrecciando al mio lavoro, alla mia vita. Sembrava procedere a braccetto con esso. Due cose completamente diverse ma inscindibili, impercorribili l’uno a prescindere dall’altra, come quella città e il suo parco. Mi balenò in mente che ero in possesso di quell’orecchino, avrei potuto mostrarlo al cliente o a suo padre e chiedergli se fosse corrispondente all’originale. Se lo fosse stato sarebbe stato interessante chiedere a quella ragazza come fosse venuta a conoscenza di tali dettagliatissime informazioni da poterne roprodurre uno identico. Perché questo, che avevo in tasca, seppur di grande valore, non avrebbe potuto essere certo l’originale, ma una sua, più o meno, fedelissima copia. Ma in quel momento ero troppo concentrato sul mio affare e, al presente, altre nubi offuscavano la mia mente, altri e ben più importanti i problemi di cui occuparsi e riguardavano lavoro, famiglia e quella sfiga maledetta che pensavo mi avesse dato un po’ di tregua e invece era tornata a bussare alla mia porta. Sentivo il bisogno di riordinare le idee.
Scelsi il Non-Bar per farlo, per il solo motivo che si trovava sulla strada del mio hotel. Ordinai una birra e mi sedetti al tavolo sotto la finestra. Non avevo voglia di sentire Paola e le sue menate, non subito, non avevo voglia di nulla. Fuori c’era buio e neanche un’anima. Le strade erano lucide d’acqua e riflettevano i lampioni e poche insegne. Il vento era freddo e salato. Notai che si vedeva il cancello Nord del parco, chiuso, tetro e scuro. Avevo bisogno di parlare a Click ma non sapevo da dove cominciare.
Finalmente la barista mi portò la birra al tavolo. Aveva la faccia di una che aveva pianto:
“Ha sentito cos’è successo oggi?”
“No. Cosa?”
“Se la ricorda la signora che era seduta ieri proprio a questo tavolo?”
“Quella col cane?”
“Si proprio quella: la signora Magda, se la ricorda?”
“Certo l’ho incontrata al parco oggi pomeriggio…”
“È finita sotto il treno con il suo cane!”
“Ne è sicura?”
“Altroché. La vedrà domattina sul giornale. Era una donna conosciutissima in città. Impegnata nel sociale, colta. Una psicologa e insegnante in pensione. Un personaggio molto in vista. Aveva scritto parecchi libri. Vita travagliata molto anticonformista, attivista femminista, fu una delle prime in Italia ad affittare l’utero da cui aveva avuto una figlia che poi si è suicidata giovane. Ne fece un mezzo esaurimento nervoso. Era andata un po’ fuori di testa dopo quella disgrazia. Veniva qui tutti i giorni a fare colazione, ma la faceva tardi perché prima, diceva, doveva andare a parlare con sua figlia al parco. Un’altra che vedeva i fantasmi.”
“Cavoli, mi spiace. Devo averla incontrata poco prima che accadesse il fatto.”
“Guardi, sono sconvolta! Era una così brava persona.”
“Non ho parole. Mi spiace tanto.”
Autore: Maurizio Denti Pompiani©
maudenpo@gmail.com